Memorial device dice già in partenza, a cominciare dal titolo su sfondo fotografico in bianco e nero, viso inquieto, rasato, in modo che da quella epidermide liscissima affiori una sorta di angelicità, ombrosa autenticità che fu del post-punk e dei suoi chiaroscurali protagonisti, maglia a righe, chiodo di pelle; dice del tipo di operazione letteraria compiuta da David Keenan, critico musicale per «The Wire» oltre che scrittore e musicista, come recita la bandella dell’edizione italiana uscita da poco per Double Nikels (traduzione accurata di Matteo Camporesi e Lorenzo Mari) dopo il grande successo riscosso all’estero, soprattutto in ambienti anglofoni, in regime di paratassi.

È APPUNTO un dispositivo di acquisizione memoriale che mentre recupera il passato – la scena post-punk di Airdrie, Scozia, tra la fine degli anni ’70 e la metà degli ’80 – lo traspone in chiave romanzesca, come divagazione, allucinata investigazione sulle vicende di una band inesistente, i Memorial Device, pretesto per una serie innumerevole di citazioni di dischi, canzoni, gruppi musicali che hanno fatto la storia del rock, dai Ramones ai 13th Floor Elevators, fino a Johnny Thunders, ai Public Image Ltd, i Suicide ecc.
Si direbbe allora, usando un termine alla moda, autofiction, cioè in questo caso il racconto della giovinezza di Keenan, immersa in un’atmosfera dolente e irruente, e resa più sonora, più autentica dalla finzione letteraria. Il procedimento, dissimulato dall’aneddoto scioperato, emerge in vari punti del libro: ad esempio quando Wee Bero, membro di un duo synth-pop «sosteneva che fosse meglio il sangue finto. Per qualche motivo, sembra più vero», o a proposito della pittura di Andrea Anderson, una delle tante ragazze che satellitava intorno alla band, che era pittura concentrica, pittura di un ambiente in cui fosse contenuto un quadro di un paesaggio, quindi metapittura, perché probabilmente non importa tanto il paesaggio in sé quanto l’invenzione, la trascolorazione che se ne fa. E ciò avviene grazie a cose, a finzioni come la musica, l’arte: ossessioni, carnali, immerse nel quotidiano ruvido, materico, più che strumenti di edificazione della personalità. Nello stesso capitolo, sempre Andrea racconta dell’esperienza di entrare, di ritrovarsi a camminare in un quadro trito appeso nella sala prova dei Memorial Device: «Sembra una follia? Come un portale che la musica riusciva in qualche modo ad aprire».

E POI ROSS, evidentemente alter ego di Keenan, riguardo all’ordinarietà di Richard, batterista, alla sua ordinaria (non ossessiva) passione per i libri confessa: «La mia vita è stata così gravemente danneggiata dai libri – non sono mai stato in grado di godermi la lettura di un tascabile senza sentire la spinta a farne la mia vita – che la sua biblioteca personale per me era tipo una raccolta di armi da fuoco inceppate». Insomma, è l’affresco, condotto attraverso un coro di voci, una gergalità forse fin troppo compiaciuta, di un periodo storico e di uno spazio, quello periferico, crepuscolare delle città, individuato da una cultura che si declinava a partire dal punk e, oltre ovviamente alla musica, si nutriva pragmaticamente e non programmaticamente di Rimbaud come di Philip Dick o Lester Bangs, ecc., come trovati accidentalmente per strada, in libretti frusti, sgualciti, per interpretare così il mondo e soprattutto penetrarlo per avventura, con quel misto di malinconia e azione, malinconia che sfociava nella reazione smodata, o nelle pose estetizzanti, che fu, alla fine, l’antifona ora stridente, ora melodiosa di un’intera generazione.