La fama italiana di John Cheever è un fenomeno relativamente recente e rappresenta uno dei segnali più eloquenti di quel ritorno di interesse per il racconto come forma letteraria autonoma e potentemente americana che, dopo il successo di Raymond Carver e la sbornia minimalista, aveva conosciuto un forte calo in anni dominati da autori molto aderenti alla forma romanzesca: da Philip Roth e Cormac McCarthy a Marilynne Robinson e Joyce Carol Oates.

Era il 2012 quando Feltrinelli propose, con il titolo I Racconti, la traduzione integrale di The Stories of John Cheever, premiato negli Stati Uniti con il Pulitzer nel 1979, tre anni prima che l’autore morisse; seguirono, a distanza di pochi anni, le traduzioni dei diari, Una specie di solitudine, e delle sue Lettere, due volumi preziosi per entrare nel mondo dello scrittore americano e per ascoltarne la voce più intima, ma anche per comprendere i suoi rapporti con la scena culturale e letteraria del proprio tempo.

Ai diari e soprattutto alle lettere ha attinto abbondantemente Julian Barnes nel saggio introduttivo a Una visione del mondo (Feltrinelli, pp. 288, euro 18,00) selezione di racconti (sedici in tutto) da lui curata, con l’evidente intento di tracciare, all’interno di una produzione breve vastissima (Cheever ha scritto in tutto quasi duecento racconti), un itinerario coerente e raggruppato intorno a una serie ben definita di nodi tematici e formali.

Logiche del sogno
La scelta, dunque, non ha necessariamente nella qualità estetica il suo punto di riferimento: e infatti Una visione del mondo, pur contenendo al suo interno alcuni capolavori indiscussi – tre su tutti: «Una radio straordinaria», «Addio fratello mio» e «Il nuotatore» – non può e forse non vuole rappresentare il Best of di uno dei più grandi autori di racconti del Novecento, americano e non solo.
Quali siano i criteri di scelta adottati è evidenziato nel saggio introduttivo, in cui Barnes immagina una sorta di «triade borghese», capace di raccontare con un misto ineguagliato di ferocia e candore, ironia e rimpianto, i tranquillized fifties di Eisenhower e della grande fuga dalle metropoli verso i sobborghi, il verde, le ville spesso con piscina, le piccole comunità. Triade composta, oltre che da Cheever, dallo Yates di Revolutionary Road e dall’Updike della tetralogia di Coniglio. Due autori, Yates e Updike, certamente vicini a Cheever per temi, ma diversissimi nello stile e nelle tecniche narrative.

Il rigore realistico con il quale Yates riproduce in ogni sfumatura le voci dei suoi personaggi, dando vita a dialoghi memorabili, o l’esattezza traslucida delle descrizioni dettagliate che scandiscono le migliori pagine di Updike non sembrano interessare particolarmente Cheever, che raggiunge invece i vertici della sua arte nei momenti in cui l’insolito, l’imponderabile, l’assurdo irrompono dentro i rituali di una classe media dispersa tra ville, sobborghi urbani, party alcolici e crisi famigliari. Tommaso Pincio, che ci ha regalato, con la sua postfazione alle Lettere, uno dei saggi migliori su Cheever, ha parlato a questo proposito di «gotico domestico» e di «realismo stregato»: «un modo di narrare dove la calibratissima gestione dell’elemento estraniante si accompagna a un lavoro non meno accorto sullo stile».

Passaggi di registro
Julian Barnes, nel suo saggio introduttivo, preferisce ricondurre l’«assurdismo» di Cheever a una dimensione essenzialmente onirica. Prendendo le mosse dai Diari, e dall’affermazione che vi si legge: «Faccio sogni di una tale densità che vorrei trarne dei racconti», lo scrittore inglese sottolinea come per Cheever il termine «sogno», anziché a una dimensione eterea e piacevolmente offuscata, si riferisca «alla densità e al contempo a una logica interna che lì per lì ci sembra indiscutibile, ma non del tutto convincente al nostro risveglio; e poi alla capacità di cambiare registro di colpo, senza preannunciare quel cambiamento e senza che provochi in noi alcun fastidio».

Gli esempi di quest’arte «onirica» sono presenti in molti dei racconti della raccolta. E se sono evidenti in due miracoli di scrittura e struttura come «La radio enorme» e «Il nuotatore», va a merito di Barnes averne trovato l’illustrazione più esemplare in «La morte di Justina»: forse, riletto a distanza di anni, il racconto più sorprendente dell’intera raccolta, nel quale si passa, nello spazio di venti pagine, «dalla cupa rêverie sui pericoli dell’esistenza a perfide riflessioni sullo stato e le origini dell’America, a questioni di natura satirica su cariche ufficiali e regolamenti urbanistici zonali, a cavilli patetici sulla morte di una vecchia zia, nonché dettagli comici su quest’ultima, faceti propositi di smettere di fumare, un sogno fantasmagorico, una rabbiosa rimostranza sulla natura della morte e l’altrui riluttanza a riconoscerla».

Sono questi passaggi ripetuti e fluidi, queste variazioni di tono così naturali e al tempo stesso insolite, queste oscillazioni tra la minuzia naturalistica dell’impianto e l’incursione fantastica, tra romanticismo e satira, a rendere Cheever sostanzialmente inclassificabile, nel suo essere insieme e contemporaneamente uno scrittore realista e immaginifico, un raffinato autore di satire e l’ultimo trascendentalista americano. Aspetto, quest’ultimo, colto alla perfezione da Barnes ed evidente nello splendore trasognato di certi paesaggi – tanto nei racconti quanto, e forse ancor più, nei Diari – che sembrano usciti dalla penna di Emerson o di Thoreau. Il moto oscillatorio che è all’origine della particolarissima arte di Cheever risalta nelle pagine del «Nuotatore» e lungo il tragitto che riporta il protagonista, Neddy Merrill, verso casa, a nuoto, passando da una piscina all’altra. Un viaggio nello spazio che diviene anche viaggio nel tempo, ricapitolazione di una catastrofe personale cui fa da specchio quella di una cittadina borghese e forse di tutta l’America.

Figure alla deriva
Qualcosa di molto simile accade a tanti altri personaggi, nei racconti antologizzati da Barnes: da Cash, l’uomo che, nel bel mezzo delle feste cui partecipa insieme alla moglie, si esibisce in improvvisate corse a ostacoli fino a quando, durante una di queste, cade e si rompe una gamba («Oh gioventù e bellezza») a Blake, che vede materializzarsi sul suo treno da pendolare la ex segretaria, con la quale ha avuto una breve avventura prima di licenziarla, e che forse vuole vendicarsi dell’affronto subito, o forse solo parlare («L’accelerato delle cinque e quarantotto»).

Figure alla deriva in un mondo che si sgretola attorno a loro: una condizione collettiva sintetizzata così da Moses, la voce narrante di «La morte di Justine»: «Io mi trovo, figurativamente, con un piede ancora bagnato sullo scoglio di Plymouth, a contemplare, con una certa impressionabilità, non una natura selvaggia, formidabile e minacciosa, bensì una civiltà incompiuta fatta di torri di vetro, trivelle petrolifere, continenti suburbani e cinematografi abbandonati, e mi domando perché, in questo mondo così prospero, equo e vincente debbano avere tutti un’aria così delusa».