Sulla soglia della vecchia casa color rosso stinto che il sole declinante del pomeriggio ravviva insieme alle luci di Natale rimaste, Ezio raccoglie un po’ di legna. A qualche metro di distanza, gli occhi verdi di Roberta lo seguono con preoccupazione: «Lui che ha 93 anni e sua moglie sono la coppia più anziana qui e vivono questa delicata situazione insieme a tutti noi». Anche Lucia mostra la raccomandata che comunica la «disdetta del contratto per finita locazione», con l’invito a lasciare i locali entro fine aprile. Le lettere di disdetta non sono arrivate a tutte le famiglie: alcuni contratti scadono nei prossimi mesi o anni, la maggior parte nel 2019. Bernardino detto Dino, invece, la lettera la sta aspettando e così Irma, che comunque è determinata: «Ho 86 anni. Qui ho lavorato a lungo. Questo posto è la nostra casa», dice mentre il gatto si arrampica sull’albero nel cortile comune. È scaduto il 31 gennaio anche il contratto della casa dove vive, con la figlia, Antonia, 103 anni, testa lucida in un corpo minutissimo, rimasto autosufficiente fino a pochi mesi fa.

SIAMO IN UN POSTO DI CAMPAGNA che si chiama Roma – dopotutto i palazzi capitali sono ospitati dal comune rurale più grande di Europa. Le lettere di disdetta pendono su una comunità di 35 famiglie formate in gran parte da ex dipendenti della pluricentenaria Tenuta Cesarina, a suo tempo la seconda azienda agricola della regione Lazio.

Oltre 700 ettari compresi nella Riserva naturale Parco della Marcigliana, un’area protetta nel III municipio della capitale. Nell’ottobre 2018 è nato il Comitato Tenuta Cesarina, per la tutela dei numerosi nuclei familiari che vi abitano e dell’intera Riserva, contro ogni intervento volto a mutare la tradizionale conformazione e la genuina produttività della Tenuta. Gli abitanti, con la storia del loro lavoro agricolo documentata dalle tante foto in bianconero di epoche andate, nel cuore hanno anche il luogo. Non un luogo qualunque. Morbide colline, tipiche della campagna romana, che attirano camminatori e ciclisti urbani. Saliscendi di strade non asfaltate: siamo in un parco. Piantagioni di ulivi. Campi arati. Nessuna costruzione recente, solo antichi fabbricati raggruppati in piccoli borghi distanti al massimo 2 chilometri da quello principale con villa e torre. File di pini contro il cielo, e uno di loro, secolare su un poggio, veglia sui resti – protetti e non accessibili – di una villula romana. Marzia Ottaviani, residente e socia del Comitato, indica l’orizzonte: «Là spesso si vede il Terminillo, il monte di Rieti, non indifferente al cuore di questa comunità di ex lavoratori rurali giunti da quella provincia tanto tempo fa. Fino al 1989 – quando c’erano abbastanza bambini – qui funzionava anche la scuola elementare. Un ricordo per me fra i più belli, quasi surreale. Il maestro d’estate ci faceva uscire sotto un grande albero, aveva messo i banchi con le sedie e facevamo scuola all’aperto».
Nessuno conosce questo territorio agricolo meglio dei suoi residenti e nessuno può esserne migliore custode e presidio contro le infinite sfumature di degrado che avviliscono tanta parte dell’Italia rurale e periurbana.

MA PERCHÉ QUESTE LETTERE? A chi servono gli appartamenti nei casali, certo vecchi, ma risistemati all’interno a cura degli abitanti? Quali progetti sono in vista? Negli ultimi decenni l’azienda, da grande produttrice quale era di frutta, uva e vino, carciofi, cereali, latte, ridimensionava le attività, mentre i dipendenti andavano in pensione rimanendo come inquilini. All’inizio degli anni 1980, compra tutto l’immobiliarista Salvatore Ligresti. Raccontano Marzia e Roberta del Comitato: «Nel 1984 l’immobiliarista tenta di rendere edificabile l’area. Ma non riesce. Si muovono anche commissioni ministeriali; arriva il vincolo del ministero e il costruttore rinuncia a perseguire il cambio di destinazione d’uso. I residenti all’epoca erano anche dipendenti e protestarono, il piano della proprietà prevedeva una decimazione degli occupati, all’epoca molte decine».

Nel 2012 il fallimento del gruppo Ligresti porta la Tenuta Cesarina sotto il controllo dei principali creditori del gruppo, riuniti nella Visconti srl, controllata al 76% da Unicredit. Un concordato fallimentare stabilisce che fra l’altro che i creditori siano ripagati con beni. La Cesarina è fra questi. La prospettiva più ovvia sembra essere la vendita.

Che ne sarà di quelle magnifiche colline agricole che sono proprietà privata ma anche bene pubblico, e in più sottoposto a vincoli? Le produzioni agricole sostenibili, così necessarie alla collettività, che futuro avranno? E le case di campagna liberate dai loro abitanti, diventeranno «antiche country houses» per benestanti?

Sul sito dell’azienda agricola Tenuta Cesarina, le abitazioni degli ex lavoratori sono descritte così: «Qualche grumo di case, rosse di quel rosso caratteristico dell’Agro romano; edifici rurali, esempi preziosi del grande latifondo». Si legge anche: «In una tenuta inserita in un Parco, come potete immaginare, i vincoli sono tanti. Ma perché parlare di vincoli? Al contrario, bisognerebbe dire che infiniti sono i pregi e i vantaggi (…)». Il sito non è aggiornato perché parla di frisone al pascolo e del loro latte. In realtà le stalle sono state chiuse da oltre dieci anni. Rispondendo per iscritto ad alcune domande, un portavoce dell’azienda agricola, spiega: «I terreni dell’azienda sono destinati alla produzione di colture seminative (prevalentemente cereali e leguminose) e olio extravergine di oliva. In regime biologico da oltre venti anni. Le produzioni sono destinate al mercato dei prodotti agricoli biologici e alla vendita diretta (per quanto riguarda l’olio extravergine di oliva)».

IL SITO DELLA CESARINA sottolinea anche che «qui nel parco la speculazione edilizia è fuori… dalla porta». Benissimo. Ma allora, in questo progetto secolare marcatamente agricolo, perché la Società agricola Tenuta Cesarina dal 2017 manda a ogni scadenza di contratto una lettera di mancato rinnovo a questa o quella famiglia? Dal canto suo, il Comitato spiega: «Non sappiamo nulla, possiamo solo fare supposizioni. I vincoli ambientali ovviamente ci sono, ma chissà. E intanto c’è un’emergenza sociale. Queste persone anziane qui hanno lavorato e faticato, raggiungendo con la pensione una certa tranquillità.. Sono attaccatissime a questo posto. Dove finirebbero?»

L’azienda a domanda risponde: «Nessuno sfratto. Ad alcuni abitanti è stata recapitata una lettera di finita locazione, che attesta la conclusione del contratto con la società. A questi inquilini verrà dato tutto il tempo necessario per individuare una nuova sistemazione, fornendo loro ogni tipo di supporto, anche economico se necessario».

RIMANE IL QUESITO: che vorranno fare di quelle case? Sul tavolo di cucina nell’appartamento di tre stanze (più cortile), accanto al caffè e alle frappe fatte in casa come la crostata e il ciambellone, Lucia ha sparso le vecchie foto delle famiglie e i volantini del Comitato. «Sono nata qui nel 1951, dopo la scuola ho lavorato la terra. Si produceva di tutto, uva, olive, carciofi, latte, c’era il caseificio. Poi mi sono sposata, mio marito lavorava qui e siamo rimasti. Siamo come un paese, una famiglia. La Cesarina ci mancherebbe tanto…non ci posso pensare. Ringraziamo anche le chiese delle zone circostanti per il supporto e la vicinanza che ci hanno mostrato sin dall’inizio.»
Arriva Giovannino: «Io ci credo nella nostra piccola lotta. Se va male, ci avremo comunque provato. A 13 anni già lavoravo nella stalla, mi alzavo la notte per mungere. Una volta congedato dal servizio militare ho fatto il trattorista, il potatore, tutto. Nel 1984 sono tornato alla mungitura fino alla pensione».

ECCO UN’ALTRA TIPOLOGIA DI ABITANTI della Cesarina. Due studenti dell’Istituto tecnico agrario di via della Marcigliana, succursale dell’Istituto Sereni. A Elisa e Valerio bisogna tirar fuori le parole. «Qui siamo 300 studenti, anche pendolari da Roma e Rieti. L’indirizzo di studi è produzione e trasformazioni alimentari». Che rapporto c’è fra voi studenti e il territorio qua? «Abbiamo una serra, un orto, le api, il pollaio, e il birrificio artigianale del carcere di Rebibbia con i detenuti che vengono a lavorare, noi diamo una mano». Perché avete scelto l’agrario? «Io vorrei fare la veterinaria». «Io vorrei gestire un’azienda con animali, il nonno ha lavorato qui per 40 anni». Se vi sfrattano vi dispiace? «Certo.» La mamma dei due studenti precisa: «I ragazzi fanno le ore di alternanza nell’azienda Cesarina, vediamo se sarà così anche quest’anno».

Cosa propone il Comitato? «Non stiamo chiedendo la luna, ma la convocazione di un tavolo istituzionale con tutti gli enti preposti e la controparte, nella speranza di raggiungere una soluzione che soddisfi tutte le parti. Parlare, trovare punti in comune. Il nostro disagio riguarda le famiglie più anziane, ma alla fine tutti noi». Per questo ha interpellato le istituzioni, dalla Regione Lazio al Terzo municipio. Quest’ultimo alla fine del 2018 ha approvato una mozione indirizzata al Comune e alla sindaca di Roma, chiedendo la tutela sia delle famiglie che della vocazione agricola dell’area.

Idee per il futuro? «Vorremmo, a parte restare qui, poter contribuire al futuro dell’azienda. Partecipare. Ci sono giovani, quelli che ci vivono e quelli che potrebbero venire a lavorare. Attività produttive e anche attività ricreative, ce ne sarebbero tante e porterebbero risultati all’azienda con un impatto economico e un aumento dell’occupazione. La Cesarina è una potenzialità per tutti».
Il presidente del Comitato, Dino, da tre generazioni alla Cesarina, dice: «Ce la faremo a parlare con loro, prima o poi».