Sabato 14 novembre, il giorno successivo agli attentati di Parigi, lo Stato islamico ne ha rivendicato la paternità con un comunicato diffuso sui consueti canali di comunicazione e propaganda. Quel comunicato non forniva elementi inediti, non dimostrava che gli attacchi multipli fossero stati ideati e finanziati dalla casa madre.

Era un atto politico, che «metteva il cappello» sugli attentati, ma senza chiarire la questione centrale: lo Stato islamico ha fornito soltanto l’ispirazione, o gli va attribuita anche la regia? L’ultimo numero della rivista Dabiq, pubblicato ieri, non risolve la questione. Anzi. Nell’introduzione si dice che, per punire la hubris militarista della Francia, «lo Stato islamico ha mandato i suoi coraggiosi cavalieri per dichiarare guerra nelle terre dei perfidi crociati».

Ma questo non dimostra nulla. E il fatto che non siano stati forniti i nomi e cognomi dei «martiri di Parigi» solleva qualche domanda. A cui non riescono a rispondere, per ora, neanche le fonti anonime dell’intelligence irachena, europea e statunitense raccolte dalla Reuters e dal New York Times, secondo le quali i terroristi di Parigi sarebbero stati in comunicazione diretta con la casa madre dello Stato islamico a Raqqa, in Siria.

Stabilire con certezza la catena di comando non sarà facile. In genere occorrono molte settimane. Una volta che sarà fatto, forse sarà possibile rispondere alla domanda su cui si interrogano tutti gli specialisti: la strage di Parigi rappresenta una svolta strategica per lo Stato islamico?

Per molti analisti, sì. Tra questi Jason Burke, autore di testi ormai considerati fondamentali sul jihadismo, tra cui Al Qaeda. La vera storia (Feltrinelli 2004) e più recentemente di The New Threat from Islamic Militancy (Random House).

Sul giornale britannico The Guardian, Burke ha sostenuto infatti che se l’attentato di qualche settimana fa nel Sinai contro il Metrojet russo «non era una prova definitiva» della nuova strategia internazionalista dello Stato islamico, gli attacchi di Parigi confermano invece che l’Isis «è diventato globale». Per Burke, «un elemento globale» – attacchi diretti a obiettivi occidentali – si sarebbe aggiunto di recente alla tradizionale campagna locale, votata alla conquista e alla gestione del territorio del Califfato. Dall’incitamento indiretto ai simpatizzanti e ai militanti che vivono in Francia e altrove affinché compiano attacchi in Europa, si sarebbe passati alla pianificazione centralizzata.

Gli attacchi di Parigi, anche se venisse dimostrato che sono stati compiuti da cellule locali, risponderebbero dunque a una novità strategica: colpire l’Occidente, quell’Occidente che finora era servito perlopiù come controparte per rinsaldare il fronte interno e legittimare ideologicamente il jihad.

Anche per William McCants, direttore alla Brookings Institution del progetto sulle Relazioni degli Usa con il mondo islamico, autore di The Isis Apocalypse (St. Martin’s Press), ci troveremmo di fronte a «un cambiamento fondamentale nella strategia globale dell’Isis». Se finora l’Isis sembrava concentrarsi sulla necessità di attirare simpatizzanti e militanti in Siria e Iraq per il grande progetto di «State-building» del Califfato, ciò che è successo a Parigi dimostrerebbe invece l’intenzione di dirottare maggiori risorse – finanziarie, operative e strategiche – per le operazioni contro i Paesi occidentali.

In questo senso, hanno suggerito alcuni analisti, compreso Hassan Hassan, co-autore del testo migliore sulla genealogia del movimento, Isis. Inside the Amry of Terror, la tensione di fondo dello Stato islamico tra l’impulso messianico, votato all’edificazione del Califfato, e l’inclinazione al pragmatismo jihadista internazionale sarebbe stata sciolta a favore di quest’ultimo. Charlie Winter, ricercatore alla Georgia State University, non è d’accordo. Per lui, la strategia dell’Isis è sempre stata ibrida, locale e globale, due piani che nel jihadismo contemporaneo non solo non si escludono, ma si rafforzano a vicenda. Sulla sua stessa posizione Thomas Hegghammer, del dipartimento sul terrorismo al Norwegian Defence Research Establishment di Oslo, per il quale non si può affermare con certezza che l’Isis sia diventato globale, perlomeno non prima di aver registrato una serie di attentati con chiari legami con la leadership centrale.

Al di là delle diverse opinioni sulla svolta strategica e sulle sue cause (ci torneremo), su un punto gli analisti concordano. Gli attentati di Parigi riflettono tre obiettivi: terrorizzare la popolazione, reclutare nuovi militanti e, soprattutto, polarizzare il campo, eliminando quella «zona grigia» che il Califfo al-Baghdadi ha criticato nel suo celebre discorso del luglio 2014. A giudicare dalle reazioni politiche, in Italia e in Francia, l’obiettivo è raggiunto. Anche perché quasi tutti sembrano dimenticare che, come ha scritto Mario Giro su Limes online, è il nostro narcisismo di europei «che porta a pensarci sempre al centro di tutto».

Gli attentati hanno colpito Parigi, certo, ma la vera guerra è interna al fronte jihadista. Le prime vittime, i musulmani.