Aeham Ahmad, suonando tra le rovine del conflitto
Intervista Parla il musicista palestinese che presenterà stasera a Torino il volume «Il pianista di Yarmouk»
Intervista Parla il musicista palestinese che presenterà stasera a Torino il volume «Il pianista di Yarmouk»
La sua immagine ha fatto il giro del mondo, quando ancora l’attenzione era accesa sul campo profughi palestinese di Yarmouk, a Damasco. Un giovane con la t-shirt verde, seduto ad un piano con le ruote, intorno macerie. Oggi Aeham Ahmad è in Europa, dopo una fuga lunga e terribile. E ha raccontato la sua storia e quella della sua comunità: la vita prima della guerra, la scuola di musica, il primo negozio di strumenti nel campo e le lezioni di musica; e poi la guerra, la fame, l’assedio governativo e l’arrivo dell’Isis, i felafel di lenticchie venduti a poche lire per sostenere una popolazione alla fame. Ahmad presenterà il suo libro Il pianista di Yarmouk (La Nave di Teseo, pp. 348, euro 20), oggi al Circolo dei Lettori di Torino alle 21.
Il suo libro dà plasticità a immagini entrate nell’immaginario occidentale: la fila delle persone per gli aiuti dell’Unrwa o la sua al piano in mezzo alle macerie del campo. Lei stesso nel libro lo sottolinea: raccontare la storia dietro quelle immagini. È il motivo che l’ha spinta a scrivere?
Il libro ha l’obiettivo di raccontare al mondo fuori la Siria di oggi, per andare oltre la fotografia: cosa pensano, come vivono, cosa sentono le persone. La prima foto mostra migliaia di persone in attesa, ma non come hanno atteso quel cibo, come sono arrivati a quel momento. Questo ho voluto trasferire nel libro: cosa sente la mia gente e cosa sento io, cosa sentivo mentre suonavo tra le macerie. Non la mera immagine e quello che ha provocato ma la realtà della comunità in cui quelle foto sono state scattate.
La figura di suo padre segna l’intero racconto, come un filo rosso unisce Yarmouk prima e durante la guerra, la sua persona prima e durante la guerra. La sua inventiva, la sua creatività e anche la sua tenacia (il sumud palestinese) sembrano metafore, della Palestina ma anche della Siria.
Mio padre è un simbolo, innanzitutto per me: è stato il mio primo e ultimo eroe. Un eroe distrutto dalla guerra e dall’arresto di mio fratello, di cui non sappiamo più nulla. È un eroe senza potere, un uomo cambiato, come la Siria: prima era colui che rispondeva a tutte le domande, che costruiva, che nonostante la cecità sapeva di poter lavorare, costruire, fare musica. Con la guerra ha perso le sue risposte, è cambiato come siamo cambiati tutti noi. L’identità di mio padre, quel sumud che lo caratterizza, è quello che nostro nonno ci ha trasferito. Non avevo abbastanza spazio per parlare di mio nonno, avrei avuto bisogno di un altro libro su quello che mi raccontava, su come descriveva la vita prima del 1948, a Safad in Palestina, della fuga in Siria insieme a mia nonna, solo con un asino. Emerge la trasformazione forzata dell’identità dal 1948 a oggi: chi è fuggito dalla Palestina 70 anni fa, chi è nato in Siria come mio padre, chi è fuggito dalla Siria come me e i miei figli, Ahmad e Kinan, che stanno crescendo in Germania. I modi in cui ogni generazione descrive se stessa sono diversi, ma tutti noi definiamo la nostra identità in un modo unico: palestinese rifugiato.
Da parte sua ha usato il piano come strumento di resistenza e informazione. È passato da Bach e Mozart a mettere in musica le poesie che i suoi amici scrivevano, il periodo – come ha detto – più prolifico della sua attività di pianista. L’arte si fa vita nel momento in cui si mette al servizio della realtà?
La musica è sempre vita, non muore mai. Forse non puoi produrla ma non significa che non esista più. Era la cosa che mi succedeva a Yarmouk: nella mia camera, da solo, al buio, non riuscivo a suonare. Nella mia mente si era bloccata. Per questo ho pensato di suonare per la mia comunità, come prima della guerra suonavo e frequentavo la scuola di musica per mio padre. La musica rende la gente felice, triste, trasmette sentimenti più delle parole. Per i bambini con cui suonavo, cantare dell’acqua e del cibo introvabili o dei rifugiati fuggiti da Yarmouk era come ascoltare un programma alla radio: quel piano riproduceva la nostra vita. Ora quei sentimenti li porto in Europa, voce della mia comunità a Yarmouk. La sola cosa che non devo più fare è urlare perché ci sono i microfoni: a Yarmouk dovevamo urlare per superare il suono del piano. Urlavamo per farci sentire, perché ci trovavamo all’inferno, urlavamo per resistere.
Yarmouk è da sempre considerata la «capitale» della diaspora per i rifugiati palestinesi, ma ci vivevano anche siriani e rifugiati iracheni o libanesi. Ha saputo mantenere nella dispersione e la morte la sua natura?
Nel campo di Yarmouk vivevano 6-800mila persone, c’erano palestinesi rifugiati, iracheni, cristiani, alauiti, drusi. Prima della guerra era un luogo di cultura, c’erano oltre 20 centri culturali e artistici, c’erano teatri, luoghi per fare musica. Perché i palestinesi non hanno bisogno di costruire grandi case (il campo profughi resta per noi un luogo temporaneo di residenza), ma pensano allo studio, alla cultura, all’espressione attraverso l’arte. Yarmouk oggi è distrutta e chi l’ha costruita in questo modo, come capitale dei rifugiati palestinesi, è fuggito. Era la gente a fare Yarmouk. E la mia paura è che non torneranno: il governo che si formerà dopo la guerra accetterà di nuovo i rifugiati palestinesi? Una domanda che porta a un’altra: cosa significa per noi Yarmouk? È un campo profughi, non è Palestina. Noi vogliamo tornare, ma non a Gaza o a Ramallah, io sono di Safad che oggi è Israele. Non c’è palestinese al mondo che non pensi al ritorno.
Una condizione di precarietà lunga decenni, quella dei rifugiati palestinesi. Che ora sono, come lei, rifugiati per la seconda volta.
Non ci siamo mai sentiti «stabili», ma sempre in attesa. Sempre prigionieri della temporaneità.
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