Il Novecento è ormai divenuto un tempo remoto, antico, distante. In un’epoca soggetta a imponenti accelerazioni, è come se il passato si allontanasse sullo sfondo e uscisse malinconicamente di scena, lasciando il campo a un indefinito presente, ovvero a quella tendenza che François Hartog ha chiamato «presentismo». Di fronte alle novità di un cambiamento segnato da quella rivoluzione digitale che ha ridisegnato completamente il nostro orizzonte, la storia sembra una disciplina superflua. Da un artigianato faticoso e costoso che riservava a pochi addetti il privilegio del sapere, si è passati alla messa a disposizione informatica di infiniti materiali non gerarchizzati. Di più, la storia viene sempre più spesso sopravanzata e scalzata dalla memoria, dominatrice dell’identità collettiva. Questo tema, attuale e impegnativo, viene ora affrontato da Adriano Prosperi in un libro agile e accorato: Un tempo senza storia La distruzione del passato (Einaudi, pp. 122, € 13,00).

Grande studioso della storia religiosa italiana ed europea, Prosperi riflette in questo testo sulla sua esperienza di storico, e sullo smarrimento collettivo che ha segnato la sua vita e la nostra nell’ultimo trentennio, vale a dire dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda in poi. In poche pagine sofferte descrive i danni provocati dalla svolta di deregolamentazione globalizzata (il «rovesciarsi dell’idea di libertà nel liberismo») e dal conseguente emergere dei populismi che stanno risorgendo, fermandosi anche sulla crisi delle strutture tradizionali (i giornali, i partiti). Ne è nata un’epoca di ripiegamento e di nuove divisioni, definita come «l’età dell’oblio», in cui trova ragione la crisi della storia, considerata ormai, nel senso comune «un vecchiume da abbandonare come dannoso».

Tra ’700 e ’800 la svolta
C’è nel libro di Prosperi un’acuta consapevolezza del carattere frammisto, lui scrive «sporco», della conoscenza storica, che non si dà in separazione dal movimento complessivo della società ed è invece intimamente connessa ai bisogni e alle speranze di mutamento sociale. Ciò comporta una presa di distanze da un certo modo di fare storia intellettuale in quanto storia separata, «come se le idee si sviluppassero per partenogenesi, come se esse non camminassero, per così dire, sulle gambe degli esseri umani». Per riattivare il collegamento tra presente e passato, quel ponte tra i vivi e i morti che oggi sembra perduto, come inghiottito dalla nebbia, occorre allora ripercorrere quel che la storia è stata e come si è venuta costituendo come disciplina nella cultura occidentale.

Il testo è così una ricognizione della storia come storiografia, historia rerum gestarum, delineata sin dai tempi di Tucidide e degli storici antichi riscoperti nel Rinascimento per giungere poi, attraverso Mabillon e i Marini, a quel mutamento di paradigma costituito dalla fissazione delle regole per l’accertamento del vero e cioè a una conoscenza capace di sfuggire all’arbitrarietà. La svolta sarebbe arrivata poi, tra Sette e Ottocento, con la Rivoluzione Francese e con i diversi modi con cui venne declinata l’idea di nazione. Se da un lato la cultura illuministica diede vita infatti alla concezione della storia come civilisation progressiva, dall’altro l’egemonia culturale tedesca – via Hegel e Ranke – avrebbe imposto, tra romanticismo e positivismo, un modo particolare di fare storia, legato allo stato-nazione e alla persistenza della Kultur come tratto identitario, uno stile egemonico che si sarebbe situato al centro della formazione scolastica e universitaria. Nasceva la storia come disciplina accademica al servizio dello stato nazionale, e cresceva di conseguenza il prestigio sociale degli storici.
Prosperi insiste sulla divaricazione che si produsse, nel corso del XIX secolo, tra una concezione tedesca della nazione ancorata alla razza e allo ius sanguinis, foriera dei drammi del totalitarismo sino alla Shoah, e una concezione francese legata allo ius soli e convergente sull’idea di patria.

I senza voce alle spalle
L’invito di Michelet agli storici perché si facciano interpreti dei senza voce e guardino alle folle in rivolta come portatrici di futuro troverà spazio con le Annales di Bloch e Febvre e con la grande apertura dei territori della storia avvenuto nel secondo dopoguerra: non più solo ricostruzione di classi dirigenti e di istituzioni, la storiografia si apriva allora a un grande ventaglio di temi e problemi nuovi, con una nuova attenzione ai popoli emersi dalla decolonizzazione, alle classi subalterne, alla condizione femminile, alle tante folle di dimenticati e di vinti che presero ad essere riscoperte dalle ricerche degli storici.

Il problema è che anche questa spinta sembra ormai esaurita e la volontà di oblio risulta più forte del bisogno di conoscenza. I canali di trasmissione dei saperi da una generazione all’altra sembrano entrati in una crisi profonda, mentre la memoria storica si affida ai social media. Prosperi dedica dunque le sue conclusioni a ricordare ciò che ci serve: «Un passato non tramontato e un futuro fatto di speranze da realizzare: ecco tutto. E da qui muove chi vuole studiare la storia».