Sulle sue spalle Adrian Paci si è caricato un tetto. Ma il tetto è rovesciato, così, nonostante il peso lo costringa a incurvare la schiena, l’impressione è che Paci si sia in realtà dotato di due ali. Home to go è una delle sue opere più iconiche, una scultura autoritratto (polvere di marmo e resina) a grandezza naturale che in queste settimane occupa con molta discrezione la Sacrestia Monumentale della Basilica di Sant’Eustorgio a Milano. È un’opera che avrebbe potuto semplicemente funzionare come una legittima etichetta della condizione di migrante (Paci è nato a Scutari in Albania nel 1961) e che invece, con questo slittamento imprevisto del «tetto alato», salta gli stereotipi e si apre a discorsi sul nomadismo e sulla libertà.
A Sant’Eustorgio Paci è arrivato per presentare una selezione di suoi lavori, di cui tre recenti e inediti. Per lui è un ritorno in questo luogo, dove, nel 1999, quando da pochi anni era in Italia, aveva lavorato come restauratore delle lunette della facciata. In quell’occasione aveva conosciuto Luciano Formica, persona molto attiva nella vita della Basilica che è diventato col tempo suo amico e sostenitore. È stato Formica a volere fortemente questa mostra (sino al 25 giugno, a cura di Gabi Scardi), che è un’operazione intelligente e ben ragionata di dialogo tra il contemporaneo e un contesto storico di grande bellezza e importanza. «Il lavoro di Paci si nutre di una profonda familiarità con la storia dell’arte», scrive Gabi Scardi.
In effetti Paci si muove con molta dimestichezza tra questi spazi. Ad esempio dialoga con pudore con i meravigliosi affreschi di Foppa, posizionando sulla soglia della Cappella Portinari Brothers, un’opera a mosaico che riprende un fotogramma da un filmato d’archivio con due fratellini dallo sguardo capace di bucare lo spessore del tempo. Ancora meglio gli riesce scendendo nel Cimitero Paleocristiano, che si insinua sotto il pavimento della Basilica. Il luogo lo induce a scavare dentro la memoria del suo paese con due opere in cui si intrecciano morte e vita. Anzi, morti e vivi. Con Malgrado tutto (2017) Paci propone foto dei graffiti lasciati dai prigionieri sui muri di un monastero di Scutari che il regime aveva convertito in carcere e luogo di tortura. Segni fragili, scalfiti nell’intonaco in modo paziente e ordinato, come a voler cucire il filo sottile di una disperata normalità.
Più avanti, nel punto più profondo del percorso sotterraneo, c’è il video che dà il titolo alla mostra: The Guardians. I guardiani sono i bambini che nel 1991, ai primi scricchiolii del regime, si erano reimpossessati del cimitero di Scutari, divenuto presidio di libertà: qui Paci ricorda di aver assistito a una prima messa celebrata alla luce del sole. I bambini (reinterpretati da loro coetanei di oggi) armati di stracci, a nugoli, si precipitavano a pulire le tombe in cambio di mance. Attraverso quel gesto ingenuo e inconsapevole vita e morte, passato e presente tornano a parlarsi, ritrovano una disinvoltura di rapporti, pur dentro la contradditorietà della storia. In apparenza sembra che Paci sia mosso dall’urgenza di scavare dentro la transizione della sua Albania: in realtà The Guardians è un’opera che decolla con immediatezza oltre quegli orizzonti specifici di luogo e di tempo. Che parla della libertà e del desiderio. O forse, ancor più semplicemente, del bisogno di stupore: le folate di bambini che accorrono divertiti a pulire le tombe parlano di orizzonti di vita e di libertà che imprevedibilmente si spalancano nel recinto di un cimitero.
Per Adrian Paci inevitabilmente il tema dell’identità migrante è tema con cui fare i conti (di «migraticità» di parla Gabi Scardi). Lo è stato sin da quando ha girato il video Centro di permanenza temporaneo (2007), non a caso inserito da Massimiliano Gioni nel percorso della grande mostra La Terra Inquieta, in corso in questi mesi alla Triennale. Lo è ancor oggi come dimostrano due delle opere inedite presenti in mostra: My song in your kitchen, girato tra i migranti della Cascina Monluè a Milano, e soprattutto Rasha, un video in cui ha raccolto la storia di una donna libanese arrivata in Italia grazie al corridoio umanitario organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. Il video, proiettato nell’ex refettorio del contiguo Museo Diocesano (ora Museo e Complesso della Basilica sono un’identità unica, ribattezzata Chiostri di Sant’Eustorgio), inquadra il volto con videocamera fissa, trasformandolo in un vero ritratto: Rasha davanti a noi tace, perché Paci ha scelto di isolare tutti quei momenti in cui lei stando in silenzio aspetta che l’interprete traduca il suo racconto. È un’invenzione di montaggio scaturita dall’incontro con quel volto; nella forza espressiva del silenzio, lei si mette in ascolto di se stessa, quasi che la sua storia, pur impressa nel suo volto, si stesse in realtà, come in un parto, staccando dal suo corpo. La narrazione la trasforma in storia di tutti: e sono davvero momenti di silenziosa e misteriosa poesia.
Paci in queste settimane ha in corso un’altra piccola mostra, anche questa molto connessa con la sua biografia: a Trapani, al Museo di San Rocco (sino al 22 agosto) espone in una bi-personale che racconta ancora una volta di un incontro, quello con suo padre. Un incontro che è stato troppo breve, in quanto Ferdinand Paci, artista e professor,e morì quando Adrian aveva solo sei anni. Il rapporto padre-figlio oggi rivive non per definire filologicamente i confini di un’eredità, ma nella sfumatura di una comune fiducia nell’arte come luogo di libertà.