Il cinema plastico e la critica creativa

di GEMMA LANZO

Dai gusti molteplici e ribelli, come egli stesso afferma, il professore di origini australiane Adrian Martin vede il cinema come materiale trasformabile e plastico. Tra gli studiosi più dinamici sul piano internazionale, con all’attivo numerosi libri, articoli, recensioni e conferenze, ha trovato il modo di innovare la diffusione della cultura cinematografica attraverso il web e la produzione di saggi audiovisivi. Scoprire come “pensare il cinema” insieme a lui è di certo un percorso molto affascinante. L’abbiamo incontrato per approfondire la sua visione e percorrere la strada di ritorno verso un’osservazione più personale ed istintiva.

Insieme al critico cinematografico statunitense Jonathan Rosenbaum hai curato un libro pubblicato dal BFI intitolato Movie Mutations: The Changing Face of World Cinephilia. All’interno vi è un tuo saggio dal titolo The Future of Academic Film Study in cui scrivi: “Lo studio accademico sul cinema tende (generalmente) verso una consolidazione sicura di ciò che è conosciuto”. Tu stesso sei un accademico, ci puoi spiegare cosa intendi?

Quando nel 2003 ho fatto quelle osservazioni, pensavo a quanto il mondo accademico sia lento ad assorbire le novità in campo cinematografico e dell’audiovisivo. Le novità proposte dai festival, le importanti opere digitali che troviamo nelle gallerie, le nuove forme di scrittura presenti sul web hanno bisogno, se non altro, di alcuni anni per farsi strada all’interno dell’istituzione accademica (ovviamente al di là del lavoro svolto da alcuni formidabili insegnanti). Le cose devono formare una massa critica, devono essere scritte su riviste accademiche, essere menzionate nei libri ed è necessario che se ne parli alle conferenze. Questo è un processo lungo, te lo assicuro. In questo momento, ad esempio, il mondo accademico è ossessionato da The Clock di Christian Marclay e Melancholia di Lars von Trier. E questo va bene, ma a me pare anche un tantino vecchio, non sei d’accordo? C’è un divario di quattro o cinque anni. D’altra parte, il grande vantaggio di lavorare in Università (e mi è piaciuto esserci tra la fine del 2006 e l’inizio del 2015) è il lusso di poter tornare indietro sulle opere del passato, seguendo il proprio ritmo. Questo non è possibile per i giornalisti che scrivono sui quotidiani o sui settimanali e raramente anche per il critico specialista, a meno che non vi sia un evento ricorrente come ad esempio la retrospettiva di un festival.

Oggi, anche quando i film non sono distribuiti opportunamente possono essere visti non solo grazie ai festival ma anche grazie alla rete che contribuisce inoltre ad una maggiore circuitazione in termini di discussione. Questo dibattito ha creato una nuova comunità di critici provenienti da tutto il mondo che dichiara apertamente che il cinema non è affatto morto. Qual è la forza di questa comunità?

Sono fermamente convinto che le persone, se sono veramente motivate ​​ed appassionate, debbano creare le proprie speciali reti culturali, all’ombra, ed alle volte proprio al di fuori, dei circuiti ufficiali. Non possiamo aspettarci che i giornali, le principali corporazioni mediatiche o gli organismi governativi di finanziamento delle arti ci salvino. Non è stato così ieri, non lo è oggi e di certo non lo sarà domani. Quello che abbiamo visto dopo il diffondersi di Internet è un nuovo tipo di internazionalismo cosmopolita, che ha distrutto le costrizioni, spesso tristi, dei confini nazionali. Forse non troverai mai una dozzina di fan di Werner Schroeter nella città in cui vivi, ma ne troverai almeno un centinaio online, in tutto il mondo. E poi queste persone si incontrano, realizzano riviste online (non importa se per un lungo periodo o meno), si impegnano nella traduzione. Questa è la buona notizia. Qual è la forza di questa comunità? A volte ne ha un po’ed altre volte non ne ha proprio. Ma se esiste per se stessa, e questo vale per qualsiasi movimento artistico, e se lascia una traccia di sé, può ispirare altre persone in un altro tempo e in un altro luogo e forse dare loro alcuni strumenti da cui partire. È così che vedo la storia della critica cinematografica in tutte le sue forme.

Di questa comunità fa parte la studiosa Nicole Brenez, che oltre ad essere uno degli autori di Movie Mutations ha partecipato anche al tuo libro Last Day Every Day. Condividi con Brenez un particolare approccio allo studio del cinema?

Mi sono reso conto che ho cominciato a sviluppare un approccio analitico fin da quando avevo vent’anni (durante i primi anni ‘80), molto tempo prima di venire a conoscenza della teoria figurale che Nicole ha avanzato. Il primo corso che ho insegnato era intitolato “The Expressive Materials of the Fiction Film”, ed oggi capisco di aver trascorso tutta la mia vita ad esplorare questo tema, fino al mio recente libro Mise en scène and Film Style (originariamente intitolato Mise en scène and Beyond). Sono profondamente interessato al cinema come forma, come materiale e come materiale trasformabile e plastico. E questo è inscindibilmente legato alle associazioni, alle implicazioni e alle possibilità sociali e politiche sempre mutevoli del cinema. Sono profondamente legato al cinema come finzione, fantasia, sogno (da qui la mia eterna ossessione per il Surrealismo). Quando sono venuto a conoscenza del lavoro di Nicole ho riconosciuto uno spirito affine e sono entrato in contatto con alcuni strumenti e concetti utili che hanno spinto ulteriormente la mia visione. Ma il mio percorso di “individuazione”, come direbbe Bernard Stiegler, respinge ogni singola teoria monumentale o scuola. I miei gusti sono davvero molteplici e ribelli, non li potrei mai sistematizzare del tutto.

Nel tuo libro Last Day Every Day scrivi di analisi figurale. Ce ne puoi parlare?

Avevo già tradotto alcuni lavori nel campo dell’analisi figurale e per capirla in profondità ho scritto un piccolo libricino dal titolo Last Day Every Day (che è stato pubblicato in tre diverse lingue). Ci sono due aspetti in questo tipo di analisi, uno generale ed uno specifico. L’aspetto generale vede uno spostamento del centro di attenzione, sia per lo spettatore che per il critico, dalla solita matrice (mondo narrativo-personaggi-psicologia-immaginario) per concentrarsi invece sul tipo di materiale plastico sopracitato, entrando così nella natura “atomica” di un film, fotogramma per fotogramma e micro-movimento per micro-movimento. Questo aspetto pone più attenzione ai generi popolari quali l’azione, l’horror, il musical, etc., nella loro evoluzione contemporanea, ma si può mettere in relazione alla analisi semiotica del testo iniziata nel 1970. L’aspetto specifico è quello che potremmo chiamare la particolare “visione poetica” dell’analisi figurale, che è una procedura che proviene principalmente dal grande, e spesso frainteso, libro di critica letteraria Mimesis di Erich Auerbach. Ciò che Auerbach sostiene nel libro è che, soprattutto nei tipi di letteratura che non sono naturalistici, realistici o umanistici in senso contemporaneo, ci troviamo di fronte a figure incomplete e frammentarie, a dei bozzetti che cercano il loro completamento o compimento altrove. I suoi esempi includono Dante e la Bibbia. Ho trovato utile questo modo di ragionare per pensare a certi film e registi quali Sternberg, Sirk, Rivette, etc.. Chiunque oggi può trovare ispirazione dall’analisi figurale ed utilizzarne alcuni strumenti senza prendere questa poetica come una dottrina da seguire pedissequamente. Per me, nel senso descritto da Deleuze e Guattari, la teoria figurale è un buon esempio di kit; personalmente mi ha aiutato a vedere alcune cose nel cinema, ma ho anche dovuto trovare la strada di ritorno alla mia visione originale ed intuitiva del cinema.

Nel libro Mise en scène and Film Style: From Classical Hollywood to New Media Art scrivi: “Uno degli argomenti di questo libro è quello di occuparsi sempre della materialità del cinema, una materialità che lavora sul doppio registro della testualità e delle emozioni dello spettatore”. Ci puoi chiarire questo concetto?

Potremmo dire che cerco sempre di capire il cinema senza ignorare il punto di vista di chi lo realizza. Se ad esempio stai montando un film (pellicola o digitale è lo stesso, la differente tecnologia non ha importanza) hai a che fare letteralmente con ogni fotogramma, con ogni micro-secondo di tempo e di ritmo, con ogni aspetto dell’inquadratura, con ogni istante del suono, in breve con ogni dettaglio. Realizzare qualcosa, qualsiasi cosa, significa sfruttare e organizzare il materiale. L’esperienza del cinema, come spettatore, è altrettanto materiale perché, che lo si sappia o meno, ogni piccolo dettaglio ha effetto su di noi, sulla nostra psiche, sui nostri sensi, sulle nostre emozioni. Credo che sia meglio esserne consapevoli ed esplorarlo. Un film non è una storia o un mondo separato da migliaia e migliaia di dettagli amalgamati e organizzati. Ecco perché dedico così tanto tempo all’analisi delle scene, dei segmenti, dei frammenti, dei momenti: cerco di isolare alcuni dei segreti del cinema.

Il cinema è un’illusione. Perché secondo te c’è sempre la tendenza a ricercare la credibilità psicologica dei personaggi?

Questa è un’ottima domanda e se avessi trovato una risposta sarei riuscito a cambiare l’atteggiamento di molti. Il cinema, come ogni forma culturale, è sempre stato trascinato verso delle modalità standard e comuni della conoscenza, della percezione, del racconto, della comprensione, delle aspettative e delle soddisfazioni. Non nego il fascino di questa tradizione ma penso che il cinema, in tutte le sue forme, sia molto più di questo e che non dovremmo continuare a cercare di ridurlo solo, o principalmente, a storie, a personaggi o a mondi immaginari. Per me il cinema è più uno spettacolo, un evento che avviene in tempo reale tra lo schermo e lo spettatore. È più simile ad un circo che ad un romanzo. Una volta mi sono descritto come un “materialista estatico” e tengo ancora a questa definizione. In ciò che chiamo “esperienza materiale” non c’è solo estasi, di ogni genere, ma anche utopia: l’assaggio di un mondo migliore che offre una critica al mondo attuale. Questo è quello che chiamo l’aspetto visionario del cinema e anche della critica cinematografica. Sono un nemico del buon senso.

Dov’è il confine tra le cosiddette immagini in movimento e il cinema?

Gli unici limiti sono istituzionali e di conseguenza artificiali. Le cosiddette immagini in movimento (tra l’altro odio questo termine perché ignora l’audio-visione) nell’arte contemporanea sono, a mio avviso, solo un’altra forma o conseguenza del cinema e il cinema è sempre stato un’arte, naturalmente, anche quando la maggior parte delle gallerie e dei musei non lo ha abbracciato nella sua totalità. Abbiamo bisogno di muoverci, di giocare e di poter fare riferimenti incrociati tra tutti questi luoghi e queste reti, come critici, come spettatori e come creatori di opere. È importante non farsi prendere troppo da una singola specificità, che si tratti di cinema classico o di new media art. Ogni riparo isolato, ogni sfera culturale autonoma diventa la sua stessa malattia, la sua stessa calcificazione ed è destinata ad appassire e a morire. Diventa un rituale culturale molto nostalgico e statico che si perpetua autosostenendosi. Quindi il mio motto è quello di una canzone soul: devo continuare a muovermi.

Cosa si intende per cinema sperimentale e per cinema avant-garde oggi?

Un’altra ottima domanda. Per me, l’avanguardia segnala un bordo, un punto estremo, un nuovo tipo di sperimentazione, alle volte una trasgressione che non può essere del tutto assorbita dalla tendenza dominante. Non ho mai creduto che l’avanguardia sia stata, possa essere o sarà completamente cooptata dalla cultura dominante. Oggi il cinema sperimentale o d’avanguardia è un po’ troppo preso a ripetere le mosse della sua (spesso gloriosa) storia. In un certo senso lo capisco perfettamente e lo accetto: ogni giovane artista ha bisogno di scoprire cosa significa infrangere le convenzioni narrative e fare qualcosa di puramente astratto, di giocare con le relazioni tra immagine e suono, di toccare determinati argomenti per liberarsi. Non ho una visione globale su quale sia il punto più avanzato di avanguardia oggi. Forse si trova nel lavoro sperimentale e politico, ma non ne sono del tutto convinto. Come ha recentemente commentato Emile Breton, essere un vero anarchico non ti fa necessariamente o immediatamente diventare un bravo regista. Ma l’avanguardia è anche, e sempre, un fenomeno visionario: saranno degli artisti speciali a mostrarci, attraverso il loro lavoro, la via da seguire.

Tutto può essere interpretato: il cinema blockbuster, il cinema avant-garde e sperimentale, il cinema di animazione, la video arte. Investire sulla Film Literacy potrebbe aiutare in questa direzione?

Sì, penso che sia essenziale. Da almeno un decennio con l’arrivo dei contenuti extra sui DVD (che va ad aggiungersi ai programmi di entertainment che vediamo in TV dagli anni ’90) la maggior parte delle persone ha avuto modo di accedere ad un tipo di conoscenza tecnica, da dietro le quinte, su come si realizzano gli effetti speciali, su come vengono realizzate le riprese e così via. Ma questa conoscenza è illusoria, non è di certo una lettura critica o analitica. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di un’utile conoscenza sull’industria cinematografica, ma non ci conduce né ad una profonda logica testuale dei film, né alle loro associazioni culturali ed ideologiche. Per me è questo ciò che l’alfabetizzazione all’audiovisivo e l’istruzione dovrebbero fare, fin dai primi giorni di scuola dei bambini.

Ritornando al tuo libro Mise en scène and Film Style, scrivi: “Il cinema non è sempre stato essenzialmente un dispositivo? Non è sempre stato un gioco tra una molteplicità di spazi, di punti vista e di suoni? Non è sempre stato la somma, o meglio il confronto, tra diversi media che comprendono il teatro, il romanzo, la radio, la musica, la pittura e l’architettura?”. È molto interessante avvicinarsi al cinema attraverso altre discipline. Sei d’accordo?

Sì, sono completamente d’accordo. Se prendiamo in considerazione questi interessi per la musica, l’architettura, la recitazione e così via, possiamo arricchire i nostri punti di vista sul cinema e rinnovarli e possiamo cercare di integrarli mantenendo le loro differenze. Molti dei grandi progressi nella teoria e nella critica cinematografica sono arrivati dall’atto di prendere una prospettiva diversa sul materiale presente sullo schermo.

La teoria cinematografica può guidare il pensiero dello spettatore?

Può aiutare. Non è sempre indispensabile, ma dovrebbe essere considerata come un altro strumento del kit. Provare ad adattare il film alle teorie è sbagliato. La teoria riguarda le idee, non i dogmi e dovrebbe aiutare a collegare idee, sensazioni, percezioni. Se non ci aiuta, se ci rallenta in modo negativo, è necessario passare a qualcos’altro. Non abbraccio nessuna singola teoria sul cinema; dobbiamo essere come le gazze e prendere ispirazione da diverse teorie contemporaneamente, perché anche le teorie possono essere visionarie.

Credi che la critica creativa possa aiutare a promuovere un dibattito sul cinema?

La critica creativa è sempre esistita. L’hanno fatta i romanzieri, i poeti, gli artisti ed anche molti critici. In sostanza, si prende la memoria o il materiale della visione del film e si ricrea quella visione/esperienza in un’altra forma artistica: una storia, un’immagine, un gioco, una poesia, un saggio audiovisivo. Talvolta può distanziarsi dal film originale; a volte ci fa avvicinare ad esso. Tutto è permesso. La critica creativa è un modo per liberarsi dalle camicie di forza accademiche o giornalistiche. È un modo per individuare se stessi e la propria pratica. Come in tutto si può rimanere intrappolati nei cliché ma perlomeno si è andati avanti, suggerendo nuovi modi di trattare il cinema.

In che direzione sta andando il cinema oggi?

Chi lo sa? Chi avrebbe potuto immaginare, anche solo dieci anni fa, quanto saremmo stati immersi nella cultura del download, della visione su altri dispositivi, del montare video su YouTube e tutto il resto? Chi avrebbe mai immaginato che serie tv come The Knick o Top of the Lake sarebbero diventate così importanti da rappresentare il miglior lavoro di registi quali Soderbergh e Campion? Non posso dunque rispondere alla tua domanda. L’unico segno di previsione che posso indicare è che i critici, a partire dal 1980, hanno mostrato un certo interesse per la combinazione o ibridazione tra documentario e fiction, in tutte le diverse forme, e ciò continua ad essere una questione sempre più importante nella nostra cultura in generale. Mentre ritengo che la questione pellicola contro digitale sia in realtà un non-problema, un dibattito inutile e per nulla interessante.

A quali progetti stai lavorando attualmente?

Con la mia compagna Cristina Álvarez López, stiamo producendo dei brevi saggi audiovisivi (la nostra serie è attualmente in corso sul sito MUBI), e abbiamo dei grandi progetti in merito a questo tipo di lavoro. Speriamo di girare qualcosa di più lungo e anche di arrivare nelle galleria d’arte e nei musei. Se ci sono dei curatori interessati tra i lettori, li invito a prendere nota! Sul fronte della scrittura ho due grandi progetti. Uno è il mio sito web “Adrian Martin: Film Critic” che raccoglie le mie recensioni degli ultimi trentacinque anni. L’altro progetto è un libro accademico per la Amsterdam University Press che raccoglie i miei saggi più lunghi e più teorici, intitolato The Artificial Night e che arriverà quest’anno in libreria, forse anche dalle tue parti!

NOTE BIOGRAFICHE

Adrian Martin è Professore Associato di Film Studies presso la Monash University di Melbourne. Attualmente vive in Spagna. Tiene regolarmente conferenze su cinema e media, è stato giurato in diversi festival internazionali di cinema ed è inoltre un critico freelance. Dal 1979 ha pubblicato migliaia di articoli e recensioni. Dal 2013 al 2015 è stato Distinguished Visiting Professor di Film Studies presso la Goethe University di Francoforte. È autore dei seguenti libri: Phantasms: The Dreams and Drives at the Heart of Our Popular Culture (Penguin, 1994), Once Upon a Time in America (British Film Institute, 1997), The Mad Max Movies (Currency, 2003), Raúl Ruiz: Magnificent Obsessions (Altamira, 2004), What is Modern Cinema? (Uqbar, 2008), Last Day Every Day (Punctum, 2012, edito anche in spagnolo e portoghese) e Mise en scène and Film Style: From Classical Narrative to New Media Art (Palgrave, 2014). È co-curatore della rivista online LOLA (www.lolajournal.com), precedentemente chiamata Rouge (www.rouge.com.au), dei libri Movie Mutations: The Changing Face of World Cinephilia (British Film Institute, 2003, edito anche in spagnolo e farsi) e Raúl Ruiz: Images of Passage (Rouge Press/International Film Festival Rotterdam, 2004). Ha partecipato a numerose pubblicazioni collettanee scrivendo su Chantal Akerman, Edgar Ulmer, François Truffaut, Naomi Kawase, Chris Marker, Vincente Minnelli, Fritz Lang, Hou Hsiao-hsien, Tod Browning e molti altri. Collabora a riviste e siti web di tutto il mondo, tra cui Trafic, Sight and Sound, Cineaste, Fandor Keyframe, MUBI Notebook, Moviement e Filmkhaneh. Dal 2007 cura rubriche fisse su De Filmkrant (Olanda) e su Caiman (Spagna). Di prossima pubblicazione sono i suoi saggi di teoria del cinema in un libro intitolato The Artificial Night, edito dalla Amsterdam University Press, e il lancio del suo sito web/archivio che coprirà oltre trentacinque anni di recensioni. Dall’inizio del 2012 collabora con Cristina Álvarez López nella creazione di saggi audiovisivi e testi scritti a quattro mani.