Dopo che nei Cahiers d’Italie et d’Europe di «900» Massimo Bontempelli aveva dato una prima teorizzazione del suo «realismo magico», con Il figlio di due madri (1929) e Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930) intendeva fornire una prova, per così dire, pratica delle sue idee. Secondo l’autore comasco, che radunerà le sue riflessioni nell’Avventura novecentista del ’38, il compito del mitografo-scrittore è di far emergere il «senso magico scoperto nella vita quotidiana degli uomini e delle cose», e Vita e morte di Adria e dei suoi figli riusciva nell’intento – per ammissione dello stesso Bontempelli – in misura superlativa: favola dell’eccesso e di tenebrosi stati della coscienza, agiografia anziché biografia della perfettività transeunte sottratta al divenire, il romanzo riproposto oggi da Utopia (prefazione di Marinella Mascia Galateria, pp. 160, € 18,00; la stampa riprende il testo pubblicato da SE nel 1995) mette al centro dell’azione Adria, donna di folgorante charme, che per preservare la sua irripetibile venustà dall’increspatura di ogni affetto si congeda progressivamente dalla famiglia – il marito, curiosamente senza nome, i figli Tullia e Remo –, dagli amici e infine dall’intera società (un’«operazione antipsicologista condotta sui personaggi», scrisse Luigi Baldacci). Come osserva Mascia Galateria, «la più diretta ispiratrice del personaggio di Adria» è «Palmira Pollini», «ballerina della Scala sposata al finanziere Petrocochino», ma già Carlo Bo nello scritto prefatorio all’edizione Lucarini del 1989 aveva notato somiglianze e ammicchi alla vicenda della contessa Virginia Castiglione – una delle donne più belle dell’Ottocento –, al parnassianesimo tout court, a Oscar Wilde, Valéry e al volontario isolamento di Fontenay Des Esseintes in À rebours di Huysmans: «Come si vede, dietro l’eroina di Bontempelli – conclude Bo con un giudizio tranchant – c’è tutto un mondo di ignavi, di paurosi, di succubi della realtà».
Il narratore nel romanzo (che si estende lungo lo spazio emblematico di diciassette anni, dal 1903 al 1920) alterna la funzione onnisciente ed extradiegetica a una testimonianza soffusa, vibratile ma calata nei fatti. Insomma, la focalizzazione è sia esterna che interna, un po’ come nei Demonî di Dostoevskij: «Che cosa poteva essere una conversazione con Adria e intorno a lei? Questo è molto difficile a rendere. Io ho avuto la fortuna di assistere due volte – un anno prima degli avvenimenti che sto raccontando – a queste riunioni, e poi le ho sentite ricordate da altri che ne furono molto più assidui; e nessuno di noi, una volta allontanato dalla sua cerchia, riusciva in alcun modo a riferirle». Marito e figli vivono per riflesso di un culto pagano, stabilito da Adria che si è votata una volta e per sempre alla religione egolatra e intangibile dell’estetica: «La bellezza fu la sua cura d’ogni minuto e scopo d’ogni atto; la sentiva come una cosa fuori di lei, che Dio le aveva data in custodia. Davanti a quella bruciò dunque ogni altra cosa, sentimento, inquietudini, piacere di vivere, ambizioni. Questa non era ambizione, ma un culto. Infatti nessuno la biasimò, nessuno la giudicò. Il marito dai gradini dell’altare serviva la cerimonia, i figli adoravano da lontano, gli amici non chiedevano confidenza, le donne non la chiamavano in gara».
A Tullia e Remo è consentito vedere la madre soltanto una volta a settimana, senza potersi abbandonare ad alcuno slancio emotivo. Sono spesso accompagnati da Guarnerio, amico di famiglia, innamorato tutt’altro che segretamente di Adria: durante una festa grandiosa nella villa del principe Vétere di Castellana, profondamente scosso da quell’amore diaccio e irrealizzabile, spara due colpi di rivoltella contro il padrone di casa e il giudice Bellamonte. Cinque anni più tardi la protagonista incontra il figlio di Bellamonte e, nonostante per lei lo scorrere degli anni sia chimera («nel mondo di Adria non esisteva tempo»), puntellata dallo scalpello dei turbamenti, si rende conto dell’apicale maturità della sua leggiadria. Decide, dunque, di imbalsamarsi definitivamente: fugge da Roma a Parigi con la sola cameriera Albertina, marito consenziente e figli raggelati, per bloccare il veniente declino in un’immobilità claustrale: «Voglio ritirarmi, nel modo più pieno (…) dal mondo. Intendo, che nessuno dovrà vedermi mai più. Nessuno al mondo, né tu, né i nostri figli, né gli amici, né le persone indifferenti».
Anche lo specchio «prediletto» e «fido» non sarà più utilizzato, se non alla fine della vicenda. Mentre a Parigi si consuma l’addio alle scene, scoppia la guerra e il destino dei figli di Adria è tragico (il marito era stato colpito da un infarto): Tullia, crocerossina e spia antitedesca, è fucilata da un ufficiale austriaco; Remo, dopo biechi trascorsi in Germania e a Marsiglia, parte sotto mentite spoglie alla volta di Buenos Aires, lasciando perdere le sue tracce e, con esse, «la buona o la mala fortuna».
Rimane soltanto Adria, nella quinta e ultima parte, sempre più algida, irraggiungibile, con la casa a un passo dalla demolizione e il fuoco da lei appiccato per scomparire nell’oblio della cenere. Poema dannunziano dell’abnegazione e della condanna, con Vita e morte di Adria e dei suoi figli Bontempelli ha voluto raccontare l’ansia di eternità racchiusa nell’effimero e il desiderio di divinizzare la dimensione corporea: in largo anticipo su Instagram, la criogenesi e la relativa letteratura (come Zero K di Don DeLillo).