Vedere Adolf Vallazza seduto su uno dei suoi «troni» in legno antico in attesa del nostro incontro, è come vedere una fonte in cima a tutti i fiumi generati. Il suo atelier/showroom situato nel centro di Ortisei, proprio accanto alla scuola d’arte, è pieno di opere create nel tempo, soprattutto nella fase più matura della sua vita, dopo i sessant’anni. Ce lo dice quando gli chiediamo degli esordi.
Era stato per tanti anni un grande maestro di bassorilievi e complessi di statue per le vie crucis in legno, gestendo una «bottega» con tanti giovani scultori che lavoravano per lui, e sembrava che quella fosse la sua via. Finché negli anni sessanta del secolo scorso conobbe un architetto tedesco che gli commissionò un enorme bassorilievo in Renania, con piena libertà di realizzazione, e in quell’occasione il suo spirito creativo si era liberato per davvero.

Aveva fatto fatica poi, ci racconta Vallazza, oggi novantottenne, dagli occhietti marroni, vispi e allegri, a rientrare nel tran tran della bottega. Ormai aveva voglia di fare altro. E per aiutarlo in questo c’era stata sua moglie che lo aveva da sempre sostenuto e stimolato a fare un percorso personale accanto a quello che «doveva fare per finire di pagare i debiti». Accanto alle statue liturgiche su commissione iniziò dapprima a disegnare nuove forme ispirato dalle tante mostre che aveva visitato in giro per l’Europa.

«La scultura e l’arte africana a Parigi! Che colpo di genio», esclama con entusiasmo e indica nell’angolo dietro al tavolo al quale siamo seduti una bellissima opera del popolo dei Dogon. Nei suoi disegni e nelle opere si ritrovano anche tracce di Henri Moore o di Picasso… «Ma chi non si ispira ai grandi? L’importante – ci dice da buon maestro – è guardare ciò che fanno gli altri per poi farlo proprio, facendo evolvere dentro di sé ciò che si è visto. Guarda per terra e nella natura, e troverai le forme del tuo cuore», suggerisce all’amico venuto con noi e che gli ha chiesto in cosa si differenzia l’arte dall’artigianato artistico. «Lo sguardo sul mondo», afferma prontamente Vallazza. Le emozioni provate, anche, viene da aggiungere, dato che nelle sue opere si riflettono (anche) momenti di vita, pensieri e riflessioni sull’esistenza, l’amore, le relazioni. Basta guardare le sue figure femminili, le coppie uomo-donna, le composizioni di forme geometriche contrapposte che dialogano tra loro, i tondi con gli angoli acuti.

Ci vuole tensione in un’opera d’arte, dice, mentre ci aggiriamo tra alcune delle opere esposte. Poi indica una figura e racconta che la base di partenza è stata una lastra di legno dismessa dal pavimento di una casa del Settecento in demolizione. Tante sculture sono partite da qui, dai legni dismessi dei masi demoliti a favore di nuovi alberghi nella turistica Val Gardena. Nel legno vecchio vede un materiale antico, ne osserva il lato vissuto, individuando i segni del tempo nelle venature longilinee o tondeggianti, nei buchi creati dall’uso o da interventi precedenti dell’uomo, come l’aver piantato dei chiodi, per esaltare poi questi aspetti con qualche altro particolare di sua inventiva, andando a creare figure che sembrano parlarci del tempo che fu. Mute, ma silenziosamente parlanti.

Da dove parte nel creare? Ha sempre ricercato la Ur-Form, la «forma originaria» nella natura, nell’architettura, nel genere umano, dice gesticolando con le mani che tanto hanno formato e ora tengono il bastone per sorreggere il peso del corpo in piedi. Aveva guardato con ammirazione Brancusi e le sue forme potenti che sembravano urlare al cielo. Gli indico una figura umana maschile in posizione seduta, da «pensatore» che ricorda un po’ quello di Rodin. Sì, dice cambiando espressione, l’essere umano deve pensare, riflettere sulla natura e sulla propria natura.

Al piano superiore dell’atelier ci sono numerose testimonianze in questo senso, accanto a tante figure femminili di diverse forme ed espressioni. Picassiane, vien da dire. Invece no, ovunque ci insegue l’indole vallazziana della ricerca dello spirito nella materia e della materia nella dimensione spirituale. Che siano semplici forme geometriche, i suoi troni, o ad esempio una donna incinta, il cui ventre fa intravedere le forme del bambino che porta in grembo. O un’altra che porta un pesante fardello sulla schiena. Nascita e morte, amore e tragedia.
Si legge di tutto nelle sue creazioni, dove non manca nemmeno il pensiero suicida raffigurato in modo talmente armonico e al contempo ironico (una testa d’uomo con una mano che punta una pistola alla tempia) che è difficile pensare a un evento brutale, anzi, Vallazza va oltre e riesce a esprimere i pensieri umani che vanno e vengono, in un fluire costante fine a se stesso. Così un altro uomo nuota felice tra le onde all’interno di un quadrato che potrebbe fare da logo a una piscina. Il nuotatore è colorato di rosa, le onde di azzurro. Come mai l’uso del colore? Per indicare che il legno non rimane sempre uguale, cambia aspetto nel tempo, a seconda se asciugato al sole o bagnato dalla pioggia, se fresco di taglio o di antica posa. I colori si ritrovano anche in altre opere che assumono forme di fiori o di uccelli, o altre onde emotive umane.

Di mostre ne ha fatte tante, Adolf Vallazza, è conosciuto nel mondo intero, ma nella sua valle originaria è considerato un pazzo che ha perso la ragione. «’Eri tanto bravo come scultore di legno, ma ora’…, mi dissero al tempo», afferma con lo sguardo infervorato. E pensare che da giovane, quando frequentava il Ginnasio dei Francescani a Bolzano (lo stesso dove studiò anni dopo Alexander Langer), era rimasto affascinato dal mondo spirituale che regnava nella scuola e nello studentato annesso gestito dai frati. Forse proprio quello che emerse poi nelle composizioni classiche di statue liturgiche tanto apprezzate dalle chiese che le avevano richieste?

C’è molto di femminile nella sua arte per quel dialogo aperto tra le forme, il continuo sperimentare stili diversi sebbene sia possibile individuare ovunque la sua «firma»: una sorta di ingrandimento delle piccole venature del legno, forme ondose che sporgono per creare volumi, forme a zigzag inserite per unire volumi ai fini di crearne altri, tanti particolari che spesso depistano la percezione in diverse direzioni, come a voler far scaturire pensieri e far parlare le emozioni in una materia non dotata di parola.

I legni usati dall’artista per le sue opere sono di tanti tipi diversi, sono vivi, hanno già un’anima propria che lui – come fece a suo tempo Michelangelo – lascia fuoriuscire, grazie ai suoi interventi. A volte minimi, come per assecondare linee già preesistenti, segnate dagli anni di maturazione o da precedenti interventi umani. Lo si potrebbe dire un attento osservatore del mondo umano e della natura, come se attraverso i suoi occhi le tante immagini percepite nel corso della sua vita si fossero materializzate nelle sue opere.
Una piccola selezione è stata esposta recentemente nel nuovo spazio Mirad’Or sul lago di Iseo, inaugurato nello scorso aprile con alcune opere di Daniel Buren: in quel museo galleggiante sull’acqua che poggia su palafitte e dotato di enormi vetrate affinché le opere esposte possano essere ammirate da fuori, a tutte le ore del giorno, e da tutti in modo gratuito.

Ideato dall’architetto Mauro Piantelli della De8_Architetti, la direzione artistica è affidata a Massimo Minini per offrire al pubblico arte contemporanea e non solo, in quanto sin dal nome – «Mirad’Or» – si è pensato di creare un luogo in cui arte, uomo e natura possano incontrarsi e incrociarsi. Una installazione site-specific già di per sé. Ispirata, come leggiamo, dalla passerella fluttuante The Floating Piers gettata nel 2016 sulle onde delle acque del lago dalla coppia Christo e Jeanne Claude (ma lei non la poté vedere, morì nel 2009).