In Avvicinamenti, uno dei più bei libri mai scritti sulla visione dionisiaca del mondo, Ernst Jünger riflette, in una serie di frammenti narrativi e di aforismi, sull’esperienza di veder svanire davanti ai propri occhi l’universo dei fenomeni – il mondo delle nostre certezze sensibili – e di penetrare, per mezzo degli effetti delle più diverse droghe e sostanze allucinogene, in uno spazio elementare.

In questo spazio è sospesa ogni riflessione e ogni mediazione, e l’individuo è esposto ai traumi di una realtà pericolosa, dissolutrice, dominata da una violenza primordiale che è il volto nascosto e spaventoso di tutto quanto appare invece razionalmente definito, ordinato, pacificato. L’ambizione di ogni decadentismo culturale, da Baudelaire in poi, è sempre stata quella di rappresentare questo spazio elementare, di sottrarlo all’invisibilità che lo ricopre e, soprattutto, di mostrare come esso sia il nascosto fondamento della ferocia, della paura e del dolore che prendono d’assedio la nostra vita.

Nei due romanzi scritti nel corso di un decennio Clemens Meyer ha dimostrato di essere, forse, il più capace, fra gli autori tedeschi contemporanei, di dare una rappresentazione narrativa a questo fenomeno. Soprattutto nel primo, apparso in Italia per le edizioni Keller con il titolo Eravamo dei grandissimi (in originale Als wir träumten, Quando sognavamo), il racconto delle esperienze autodistruttive di un gruppo di ragazzi di Lipsia prima e dopo il 1989 diventa una grande raffigurazione dell’avventura e del pericolo che segnano ogni esperienza immediata dell’elementare dionisiaco. Nel secondo, Im Stein (Nella pietra), è raccontata invece la vita di alcune prostitute. Questo incontro con Clemens Meyer – che oggi sarà al Festivaletteratura di Mantova – è avvenuto nella hall dell’albergo Novecento a Rovereto.

In entrambi i suoi due romanzi sono rappresentate la violenza e la brutalità della vita quotidiana. Ha scelto questo tema per reagire alla visione edulcorata che la Germania ha dato di se stessa e della sua storia, dal 1989 a oggi?
La violenza è una specie di logica dei personaggi, fa parte della loro vita: sono vittime della brutalità che domina nelle strade e finiscono per praticarla. Non volevo metterla in primo piano, ma è stata una scelta obbligata, perché l’ambiente sociale in cui vivono i miei personaggi ne è dominato. Di sicuro, il contesto di Eravamo dei grandissimi non è molto frequentato dalla letteratura tedesca e quindi anche gli scontri di strada, le lotte per la conquista di un qualche potere, la violenza della polizia e a volte delle famiglie non trova rappresentazione nella narrativa contemporanea. Credo che i temi trattati oggi dalla letteratura tedesca possano essere mediati solo da personaggi che siano degli intellettuali. Io, invece, sono dell’opinione che i grandi temi della letteratura, della società o – per dirla in modo un po’ patetico – della vita possano essere trattati attraverso personaggi più «terreni», come accade nella tradizione di tante altre letterature. In Germania, invece, cosa abbiamo avuto? Berlin, Alexanderplatz di Döblin e poco altro.
I suoi personaggi sembrano trasmettere indirettamente un’idea della storia: del come sono andate le cose e del perché sono andate in quel modo. Capita, ad esempio, in «Eravamo dei grandissimi», che i protagonisti, quando sono ancora dei ragazzini, si trovino per caso coinvolti in una delle famose manifestazioni del lunedì di Lipsia senza capire di cosa si tratti, dunque la vivono come una serata allo stadio. Come definirebbe questo sentimento della storia osservata dalla prospettiva del sottosuolo?
In Eravamo dei grandissimi mi interessava descrivere lo sguardo dei bambini sulla storia, la loro prospettiva ingenua. Hanno quasi lo stesso modo stravolto di vedere la realtà dei fools, dei buffoni shakespeariani. Mi pareva che questa prospettiva avesse in sé qualcosa di particolarmente poetico, che permette al lettore di ridere e, al tempo stesso, di capire la tristezza della situazione in cui questi ragazzi si trovano a vivere. Tutto quanto accadde nell’89 è troppo grande per loro. Solo più tardi, quando ormai sono cresciuti, ma le loro vite sono distrutte, si voltano a guardare indietro e credono di intuire qualcosa. Ma, appunto, dalla prospettiva del fallimento e della sconfitta. Intuiscono di avere ballato sulle macerie della storia e di essere andati a fondo con lei. Questa prospettiva mi permette di non procedere come un narratore didattico, che ha una tesi da dimostrare: mi immergo nella testa di questi ragazzini, vivo quello che vivono loro e comunico quello che sentono loro.
E quali sono le differenze di prospettiva con il suo secondo romanzo, «Im Stein», tutto ambientato nel mondo della prostituzione?
In questo caso mi interessava usare un’altra variante del mondo del sottosuolo come specchio dei grandi avvenimenti sociali dal 1990 a oggi e dei meccanismi del mercato capitalistico. Ho scelto l’universo a luci rosse perché è un mondo con cui tutti gli altri mondi hanno a che fare. Non ho voluto scrivere una storia della prostituzione, ma dei meccanismi politico-economici che regolano la realtà, una storia centrata sul potere. C’è anche una dimensione mitica molto forte in questo romanzo. Ed è naturalmente una storia della sessualità, anche se l’eros non ha un’importanza centrale; è piuttosto il veicolo di una manipolazione reciproca, che vede gli individui vittime al tempo stesso protagonisti di questa forma di violenza.
La critica la iscriverebbe senz’altro nel novero degli scrittori «nichilisti». Tuttavia nei suoi romanzi è importante la dimensione del sogno, della fantasia: lei la sviluppa suggerendo l’idea che risiedano qui le possibilità, per i suoi personaggi, di uscire dalle spirali di violenza, potere e denaro in cui sono avvolti.
Ma è vero anche il contrario. Naturalmente i mondi in cui fuggono i ragazzi di Eravamo dei grandissimi – i rifugi, le discoteche, le birrerie – sono luoghi in cui cercano la possibilità di vivere una vita diversa da quella, terribile, che trascorrono sulle strade, nelle famiglie. Ma anche quelli sono luoghi minacciati. Quei ragazzi sono circondati da una realtà in macerie, cercano di sfuggire all’autorità, al potere dei più forti, alla giustizia, ma poi finiscono per partecipare a quegli stessi meccanismi di potere da cui cercano di sfuggire. Ad esempio, rubare auto per rivenderle è il loro modo di entrare nell’economia di mercato. La letteratura è costituita, per me, proprio da questi due elementi: la realtà e il sogno, anche se il sogno fallisce. È la possibilità stessa di immaginarsi fuori da questa realtà a rendere la dimensione onirica importante. Il romanzo finisce con la parola «felici», e non è un caso.
Questo incontro di due dimensioni è anche importante nel suo secondo romanzo, che per molti versi appare diverso dal suo esordio, anche nella forma. Qui, in «Im Stein» si potrebbe dire che il sogno, nonostante il tema, sia diventato persino più importante.
Sì, qui i contrasti condizionano profondamente la forma e il sogno si insinua dappertutto. Im Stein è, per certi versi un tentativo molto più ambizioso di Eravamo dei grandissimi: la storia è raccontata attraverso il montaggio di monologhi interiori, articoli di giornale, frammenti surrealistici, dialoghi teatrali, passi saggistici, tutto serve per comporre un ritratto mai univoco della realtà. Non è un romanzo naturalistico. Naturalmente la componente realistica è importante, ma è necessario che essa si componga a questi passi poetici, quasi lirici. Sono aperture su un’altra realtà, come lo erano le fantasie di Eravamo dei grandissimi.
Nei suoi romanzi, apparentemente facili, lei combina la grande forma epica con brevi schizzi narrativi, dialoghi secchi, squarci lirici. C’è un chiaro riferimento ai classici modelli della narrativa del Novecento. È una scelta persino controcorrente in un mercato letterario sempre più lontano dai modelli del modernismo.
Uso la forma breve anche nel romanzo. Mi piace scrivere racconti perché mi permettono di sperimentare diversi punti di vista, di giocare con le prospettive, di focalizzare un tema specifico. Eravamo dei grandissimi è nato da una serie di schizzi narrativi. Li avevo portati a un professore di cui seguivo i corsi per chiedergli come tirarne fuori un romanzo e lui mi disse: questo è un montaggio, metta tutto insieme e avrà il suo romanzo. Ma in un simile organismo è anche possibile perdersi, perché la sua struttura è infinitamente più complessa di quella del racconto, in cui non necessariamente l’ordine regna sovrano. In Im Stein ci sono personaggi che appaiono e poi scompaiono senza tornare più, ci sono strade chiuse, aperture improvvise. I miei modelli sono Döblin, Dos Passos, Fitzgerald e anche Joyce e il nouveau roman. Rappresentano possibilità che il romanzo postmoderno non conosce, e forse il praticarle mi rende un po’ diverso da altri scrittori di oggi.