La madre in nero sorregge un piccolo monello con un vestito rosso da cui spuntano i mutandoni bianchi. Appeso al braccio destro un fagotto con tutti i suoi averi. La Mère, 1899, ha il viso giovane scavato dalle preoccupazioni che si indovinano nello sguardo spento. Dietro di lei, seduti al tavolino di un bistrot due uomini discutono con in mano un bicchiere di assenzio, la droga dei poveri. I colori sono cupi, densi, non lasciano spazio al pittoresco. L’unica macchia vivace il rosso in primo piano dell’abitino.

Speranza per il piccolo di una vita migliore? Il naturalismo di Jules Adler è molto vicino a quello del suo contemporaneo Zola, tanto da essere definito «lo Zola della pittura». Sensibile a ogni forma di ingiustizia, dal 1898 s’impegna nella lotta in difesa del capitano Dreyfus ingiustamente accusato di tradimento e spionaggio a favore della Germania, firmando petizioni e proteste. Nel suo atelier parigino si incontrano tutti i «dreyfusards» ed è in quell’occasione che si avvicina a Zola.

Sin dall’inizio della sua carriera la miseria delle classi disagiate della società industriale lo turba profondamente. Il suo interesse per la condizione operaia e per i sottoproletari della città, soprattutto di Parigi in cui vive, gli attribuisce la fama di pittore dei poveri. Un dipinto di grande formato La Grève au Creusot, dello stesso 1899, lo fa conoscere in tutto il Paese. Documenta lo sciopero dei lavoratori delle officine meccaniche Schneider costruite vicino alle miniere della regione. Basata su un avvenimento di attualità, la tela acquista, per la sua forza simbolica, una dimensione universale, che la fa riprodurre in molti testi sulla storia del movimento operario. Un po’ come La Liberté guidant le peuple del 1830 di Delacroix e Il quarto stato di Pellizza da Volpedo del 1902. Nel quadro di Adler una donna, che regge la bandiera tricolore, guida un lungo corteo di uomini e donne che sfila davanti alle ciminiere della fabbrica.

Vita e opere
Jules Adler nasce nel 1865 a Luxeuil-les-Bains nella Francia dell’est al confine con la Germania. Di famiglia ebraica mostra fin da ragazzo uno spiccato talento per la pittura. I genitori, venditori di stoffe, a malincuore lo lasciano partire per Parigi, dove frequenta l’École des Beaux-Arts e diventa professore di disegno. Già una delle sue prime tele, La Transfusion du sang de chèvre par le docteur S.B. è esposta al Salon del 1892 e ottiene un successo di stima che lo lancia. Pur vivendo nella capitale, rimane legato per tutta la vita alla sua città d’origine, dove le numerose committenze dei notabili gli permettono di continuare il suo lavoro.

La mostra Jules Adler. Peintre du peuple al Musée d’art et d’histoire du Judaisme presenta fino al 23 febbraio centosettanta quadri, disegni, incisioni e documenti, di cui un terzo mai esposti in pubblico, permettendo di scoprire, oltre a un’opera originale, il contesto sociale e politico della Francia delle Terza Repubblica. Ma testimonia soprattutto la sua appartenenza ebraica nella percezione del mondo e nell’impegno come uomo e artista. Se in seguito il suo lavoro affronta soggetti meno legati alla politica, non si allontana mai dalle figure popolari.

Pittore tra due guerre
Le Chemineau. La chanson de la grand-rout del 1908 raffigura un manovale a giornata, un personaggio libero e disinvolto, familiare nelle campagne dell’epoca, che se ne va per la strada con un badile sulla spalla. Dai contadini passa ai pescatori di Gros temps au large, matelots d’Étaples del 1913. Le donne, avvolte in scialli neri, aspettano ansiose il ritorno dei mariti e dei figli. Le loro figure spiccano sul bianco del molo, e in lontananza se ne intravedono altre perché la vita di tutto il villaggio dipende dalla pesca e dall’amore che le lega ai loro uomini. All’inizio della prima guerra mondiale è mandato in missione al fronte e con le sue fotografie e i suoi disegni documenta gli orrori del grande macello di cui è testimone nelle varie regioni che attraversa. Al suo ritorno apre con la moglie e altri amici una mensa per gli artisti in difficoltà. Del 1916 è Pendant le bombardement, un disegno a matita con tre donne avvolte da coperte, strette tra di loro: tre generazioni, la nonna, la madre e il neonato in braccio. Comunicano paura e rassegnazione per un evento ineluttabile.

Artista ebreo
Adler ha sempre rivendicato la sua appartenenza al giudaismo anche se la sua opera non tratta mai soggetti esplicitamente ebraici. Sono i sionisti che lo eleggono come loro rappresentante. È così che un suo quadro viene esposto nel 1907 a l’«Austellung jüdischer Künstler», rassegna manifesto delle prime generazioni di pittori ebrei della scuola di Betsalel, fondata l’anno precedente a Gerusalemme. Se solo per questo è difficile farne un militante sionista, lo confermano la partecipazione a una colletta del 1922 per acquistare della terra in Palestina e la donazione che fa al museo di Betsalel del quadro Usines del 1904. Gli altiforni con le loro ciminiere fumanti si stagliano su un cielo nuvoloso. I colori predominanti sono il marrone scuro, il grigio, il nero, stemperati in basso dall’azzurro spento di un corso d’acqua. La sua pittura, anacronistica nell’epoca delle grandi avanguardie, ha però il merito di essere come abbarbicata alla realtà di cui diventa una memoria indelebile. Tra i suoi quadri più celebri, Paris vu du Sacré Coeur del 1936, l’anno del Fronte Popolare, conferma le sue qualità di pittore della storia, a cui la presenza tra le varie figure dell’artista e di sua moglie, aggiunge un tocco poetico e sentimentale.

La prigionia
Il 20 agosto 1940, dà le dimissioni dal Salon degli artisti francesi per protesta contro il divieto ai pittori ebrei di esporre le loro opere. Continua a dipingere e a disegnare attivamente. Del 1941 è Couple devant la mairie des Batignolles. Due anziani passeggiano in una grigia giornata invernale sostenendosi affettuosamente tra di loro. Il 29 marzo 1944, in seguito a una denuncia per aver disegnato in un giardino pubblico proibito agli ebrei, Adler e sua moglie vengono arrestati e internati in rue de Picpus, nel campo di concentramento per i vecchi e gli ebrei malati. Se sfuggono alla deportazione, ne escono solo il 25 agosto alla liberazione della capitale. Durante i sei mesi di prigionia, realizza molti disegni di altri internati, diventando ancora una volta testimone della sofferenza umana.

Lettere dal carcere
Per tutta la seconda guerra mondiale i suoi diari e le sue lettere danno prova, al di là delle vicissitudini materiali, della volontà di non cedere alla disperazione, mostrando a volte sorprendente ottimismo.
In una lettera del 16 luglio 1942 racconta di aver assistito impotente dalla sua finestra alla retata del Vel d’Hiv in cui per ordine del governo di Vichy migliaia di uomini, donne e bambini furono internati nel Vélodrome d’Hiver da dove venivano mandati nei campi di concentramento. In un’altra del 18 luglio scrive con ironia che la stella gialla appuntata al suo vestito lo fa assomigliare ai re magi di un tempo, ma lo confortano le dimostrazioni di simpatia che riceve dai passanti. Non si sofferma molto sulle sue condizioni a Picpus, le giudica una conseguenza inevitabile della promiscuità. Mentre descrive la miseria degli internati, polacchi, russi, cecoslovacchi, costretti a vivere nella sporcizia, tra i pidocchi, balbettanti un linguaggio incomprensibile. Paradossalmente la tragedia del campo non lo sconvolge, ma gli ispira soltanto l’osservazione ironica che «Rembrandt o Goya vi avrebbero trovato degli spunti per magnifici quadri».