A dare la notizia della morte, è stato il suo avvocato attraverso un comunicato immediatamente diffuso dall’agenzia France-Presse: «negli ultimi tempi era affaticato. Si è spento tranquillamente». Jean-Paul Belmondo nasce a Neuilly-sur-Seine nel 1933, figlio d’uno scultore di origini italiane e di una pittrice. È ammesso nelle migliori scuole parigine, tra le quali il celebre liceo Henry IV. Ma è poco incline agli studi e più orientato all’azione. Si appassiona di sport, il calcio e la boxe in particolare – in Fino all’ultimo respiro, il suo personaggio dirà : «non sono particolarmente bello, ma sono un buon pugile». In realtà, neanche il mondo della boxe fa per lui. A sedici anni decide di diventare attore e dieci anni dopo verrà scoperto da Jean-Luc Godard. A partire da Fino all’ultimo respiro (1960) la sua carriera non smetterà di crescere. Sempre nel 1960, lo troviamo nel film di Sautet Asfalto che scotta, un successo che inaugura una serie molto lunga di film polizieschi seri, alcuni belli Lo Spione di Jean-Pierre Melville (1962) e Borsalino (1972) insieme all’altro attore del poliziesco francese, Alain Delon, altri decisamente da dimenticare. Splendidi e immortali sono i suoi personaggi del sacerdote di Leon Morin, prete (1962, sempre per Melville), del giovane senz’arte né parte di Quando torna l’inverno, davanti ad un ultimo superbo Jean Gabin, e dell’uomo accecato dall’amore di La mia droga si chiama Julie insieme a Catherine Deneuve, questa volta sotto la direzione di François Truffaut.

Jean-Paul Belmondo, foto La Presse

QUANDO la Nouvelle Vague ha smesso di essere popolare, Belmondo ha continuato ad esserlo, portando il suo talento altrove, bruciandolo, reinventandolo varie volte al cinema e a teatro, in ruoli più o meno importanti. È stato calcolato che i suoi film hanno portato in sala 160 milioni di spettatori. Ha ricevuto un César, ma lo ha rifiutato. La sua carriera ha la grandeur del cinema francese, in quello che ha di meglio, di più aperto e innovativo. Ma anche in quello che ha di più provinciale.

BELMONDO È STATO per certo uno dei volti che hanno caratterizzato e definito la Nouvelle Vague. Con Godard ha girato un secondo capolavoro. È il Pierrot le fou del Bandito delle 11 (1965). Nel quale reinventa, mescolandola con i codici del cinema moderno, la filiazione con Michel Simon, l’attore più dada del cinema francese. Ma nessun ruolo è paragonabile per importanza e influenza a quello di Michel Poiccard, il bandito di Fino all’ultimo respiro. Perché Jean-Luc Godard, nella preparazione febbrile del suo primo film, ha deciso di dare il ruolo del protagonista maschile a Jean-Paul Belmondo, allora quasi sconosciuto? Come tutti i cineasti della Nouvelle vague, Godard vuole imporre un cinema nuovo nei contenuti e nelle forme. Per incarnare questa mutazione c’è bisogno di trovare nuovi corpi, nuove maniere di muoversi e di recitare davanti alla macchina da presa. Uno dei gesti radicali della nouvelle vague è stata di mettere da parte gli attori del cinema francese, e andarsi a cercare dei nuovi nei quali la gioventù potesse riconoscersi. Truffaut lo trova nella persona del giovanissimo Jean-Pierre Leaud. Godard incontra Belmondo grazie a Anne Colette, che lo aveva scoperto sul set di Sois belle et tais-toi (1957). È Belmondo a ricordarsi dell’incontro: «In quel periodo bazzicavo spesso Saint-Germain, c’era sempre un tipo triste con gli occhiali neri che mi osservava, al punto che mi ero fatto delle strane idee sulle sue intenzioni… Anne Colette mi ha detto : è un amico, vorrebbe conoscerti». Godard ha detto che Fino all’ultimo respiro è in un certo senso un documentario sulla coppia Belmondo/ Seberg: «Ho visto in Belmondo una sorta di blocco che bisognava filmare per sapere cosa ci fosse dietro». Dietro c’è un paradosso. Belmondo rappresenta un nuovo modo d’essere, ma nella sua recitazione c’è anche una filiazione con le vecchie avanguardie. È Truffaut a trovare l’immagine giusta: «L’Atalante di Jean Vigo finisce con Jean Dasté e Dita Parlo che si abbracciano a letto. Di certo quella sera, hanno concepito un figlio: il Belmondo di Fino all’ultimo respiro». Infine, in questo ruolo Godard e Belmondo fanno confluire il cinema di genere americano, o meglio il suo immaginario. Non si tratta solo di un’infatuazione per Humphrey Bogard e Glenn Ford.

Belmondo in una scena da «Trappola per un lupo»

SI TRATTA di una maniera di osservare i personaggi e il loro destino che rompe con la tradizione moralizzante del cinema francese. Godard filma Belmondo come Nicolas Ray filma i giovani delinquenti di La donna del bandito: senza cinismo, con rispetto, curiosità e in qualche caso con ammirazione. Questa lezione, di cui Belmondo è l’incarnazione ultima, verrà poi reintegrata dal cinema americano, da Elliot Gould nel Lungo addio di Altman (il cui Marlow guarda tanto a Belmondo che a Bogard) e da tutti i gangster di Tarantino, tutti figli di Jean-Pierre Belmondo.