È scomparso ieri a Roma un personaggio importante della scena italiana, Memè Perlini (Amelio il nome all’anagrafe, ma per chiunque dell’ambiente lui era semplicemente «Memè», senza neanche il cognome). Il suo corpo senza vita è stato ritrovato ieri all’alba nel cortile della casa dove abitava, al quinto piano, vicino piazza Vittorio. Probabilmente si tratta di suicidio, era malato di una forte forma depressiva.

 

Sembra impossibile, quasi un «peccato», che una persona così bella e affettuosa, grande artista ma di indole assolutamente portata alla modestia, sempre capace di una parola,o di qualche pungente esclamazione dialettale capace di conquistare chiunque, abbia potuto compiere una scelta del genere. Era nato nel 1947 (avrebbe compiuto 70 anni a dicembre) su una montagna di fronte al mare, al confine tra Marche e Romagna, e tante volte era solito rivendicare quella origine, quel dolce dialetto che con lui diventava poesia. Anche se si era addentrato, in teatro, nella scrittura di autori complessi e visionari, le sue predilette avanguardie di inizio 900 da cui attinse impulsi e visioni per la nuova avanguardia teatrale romana degli anni 70 e 80, di cui fu uno degli esponenti di maggior spicco e esaltante visualità.

06visdxshowimg2.cgi-4

Aveva studiato all’Accademia di Belle Arti, ma presto travasò quell’amore per le immagini sulla scena teatrale. Dove iniziò come attore, al benemerito Circolo La Fede di Porta Portese officiato da Giancarlo Nanni, dove «saltellava» attorno a una giovanissima Manuela Kustermann. Ma fu al Beat 72 che realizzò il suo primo spettacolo, Pirandello chi? con Rossella Or che lo rese immediatamente celebre. Nasceva allora un «teatro immagine» (parte cospicua di quella che fu poi catalogata come «scuola romana») dove segni e segnali, ovvero oggetti di ogni trovarobato, luci e buio, parole enucleate dal testo, folgorazioni pittoriche e ombre notturne riuscivano a comunicare e parlare più di qualsiasi battuta o discorso. Con affondi indimenticabili, come quel Candore giallo (con suono di mare) che nel 1974 bisognò raggiungere sulla spiaggia di Pescara.

Fu l’inizio di una carriera molto fortunata, in quegli anni 70 che della nostra storia culturale recente esprimono forse il decennio a più alto grado di creatività e intelligenza, nonostante le ombre che poi vi si allungarono. Oltretutto Perlini interveniva su Pirandello, allora mito intoccabile della nostra letteratura, ancora costretto nella gabbia angusta delle formule tipo «teatro nel teatro» o «uno nessuno e centomila». E subito dopo Memè si applicò ad un altro autore ancor più misterioso, Raymond Roussel, cui dedicò un iniziatico Locus solus. E sul suicidio dello scrittore francese farà poi uno dei suoi film più importanti, Grand Hotel des Palmes, che prendeva nome proprio dal luogo di quella morte così letteraria

Il successo ottenuto,  di pubblico e critica, permise a Perlini e al suo compagno di allora, anche lui artista visivo e scenografo, Antonello Aglioti, di aprire in un grande garage al limite di Garbatella, un teatro che divenne immediatamente luogo deputato di tutta la cultura romana, la mitica Piramide. Lì, sempre frequentando le maggiori scritture del 900, da Wedekind a Handke, si affermò come un vero maestro di visione.

06visdx-ETTORE-SCOLA-MEME-PERLINI-SERATA-MORAVIA-JACKIE-O-1978-469_resize-1024x683

Tra le molte cose, due con un attore allora giovanissimo, un delirante e doloroso Eliogabalo, e l’ancor più doloroso Uomo dal fiore in bocca pirandelliano, sui binari veri di una stazioncina di provincia. L’attore era Toni Servillo. Del resto Perlini diresse anche Paolo Stoppa, in un Mercante di Venezia, e un Borkman tradotto per l’occasione da Claudio Magris. Tempi felici, dove il teatro aveva ancora una facile e sentita presa. E Memè ci diede ancora tanti titoli, oggi sempre evocativi.

Ma a lui piaceva il cinema: un paio di sue regie andarono anche alla mostra di Venezia, ma i ricordi più belli, perfino commoventi, restano quelli di tante sue apparizioni sul grande schermo. Alcune di grande lustro, da Germi a Sergio Leone, ma due assolutamente da culto: Voltati Eugenio di Comencini e La famiglia di Scola. In teatro non si era arreso, dopo una lunga pausa era tornato a realizzare qualcosa. Ma la sua grande stagione era stata davvero alta, tanto da risultare impossibile a ripetersi.