Antonio Pennacchi, scomparso a 71 anni nella sua Latina, ha reso come pochi due momenti molto diversi eppure centrali del Novecento italiano riuscendo a restituire, per il tramite di una scrittura intrinsecamente feroce ed autobiografica, un’opera letteraria capace di «parlare con la storia», emergere dal «particulare» e raccontare moti e movimenti collettivi come biografia antiretorica della nazione. È stato certamente questo il senso del suo scritto più noto quel Canale Mussolini (Premio Strega 2010) che racconta lo sforzo umano della bonifica dell’agro pontino ripulendola dalla retorica del regime fascista e ricollocandola dentro la misura della fatica e degli sforzi sostenuti dalle popolazioni che la animarono e che quelle terre abitarono. Una epopea incarnata da quella famiglia Peruzzi che, in un universo che oggi parrebbe rovesciato, scappa dalla povertà e dalla fame delle terre venete del Polesine per giungere nelle aspre paludi del basso Lazio.

UN’OPERA che ha reso finalmente leggibile da un punto di vista eterodosso e culturalmente controcorrente un impasto antropologico spurio ed un’esperienza collettiva fatti di linguaggi e dialetti meticci, lavoro pesante ed impegno durissimo divenuti fattori di un’identità plurale e non schiacciata sulla verbosità autoritaria del regime. Una scrittura piantata con i piedi dentro la trentennale esperienza operaia alla Alcatel Cavi di Latina che resterà una radice d’origine a cui Pennacchi non rinuncerà mai, tanto meno ne Il fasciocomunista dove racconta, di nuovo autobiograficamente, il percorso politico ed esistenziale di un giovane uomo della provincia italiana degli anni Sessanta dall’estrema destra neofascista alla contestazione del Sessantotto nei gruppi della Nuova sinistra.

Una narrazione originale e asciutta, scevra dalle enfasi «reducistiche» che rovescia la dimensione manichea del rosso e nero e la riporta dentro il magma incandescente della prima rivolta generazionale del dopoguerra che modifica parametri di giudizio e mentalità, innervandosi della condizione operaia come contatto materiale con una realtà in profondo mutamento come quella dell’Italia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.

UNA LETTERATURA allo stesso tempo «verticale» e protesa verso l’alto nei contenuti e nella profondità abrasiva dei temi; «orizzontale» e costantemente indirizzata alla sua gente, non solo quella con cui ha vissuto tutta la vita nell’agro pontino ma anche quella che per vivere ha lavorato e lavora.
La capacità di coniugare originalità espressiva e realtà sociale, all’interno di una vis polemica e di una dialettica che mai ha rinunciato al conflitto come modalità di rapporto tra gli esseri umani e come ricerca della giustizia sociale, restano il segno ed il lascito di un «irregolare» che, come si legge in una sua introduzione di Canale Mussolini, «doveva scrivere ciò che ha scritto» che questo piaccia oppure no.