Il padrone delle Marche è morto nella notte tra venerdì e sabato all’ospedale di Fabriano. Vittorio Merloni, 83 anni, è stato il simbolo di un capitalismo di mezzo spuntato fuori negli anni ’70 sulla cresta dell’onda lunga del boom economico: le mitologiche «piccole e medie imprese» diventate colossi, un po’ affare di famiglia e un po’ fenomeno tutto provinciale di un’Italia che cresceva a sprazzi oltre il triangolo Torino-Genova-Milano e oltre l’industria di stato.

Elettrodomestici e grandi intuizioni, per decenni i Merloni, prima con il cognome di famiglia sulle insegne e poi come Indesit Company, hanno dato da mangiare a decine di migliaia di marchigiani tra profitti incredibili e sussidiarietà da cattolicesimo sociale: ogni operaio deve poter comprare quello che produce. Prezzi umani e buona qualità. Le case dei lavoratori si riempirono così di lavastoviglie, frigoriferi, cucine: in pochi anni la periferie dell’impero scoprì di non essere poi così povera.

Nel 1980 Vittorio Merloni divenne presidente di Confindustria, carica che ricoprì per quattro anni prima di venire parcheggiato in una delle tante branche associative dal nome altisonante ma dall’utilità dubbia: presidente di Centromarca, l’Associazione italiana delle industrie di marca.

Indesit, intanto, cresceva e cresceva, fino a diventare uno dei mostri sacri mondiali dell’elettrodomestico. Tra il 2013 e il 2014 la crisi: la chiusura di alcune fabbriche nelle Marche, le proteste in Campania, le trattative a oltranza in Regione e al ministero dello Sviluppo economico. Alla fine, la vendita agli americani di Whirpool: 756 milioni di euro per il 60,4% del pacchetto azionario dell’azienda di famiglia. Un colpo al cuore, ma anche un modo per monetizzare il crollo dell’impero.

Già perché i Merloni con la politica hanno sempre flirtato, per così dire. Vicini al gruppo bolognese del Mulino, l’esperimento più riuscito della famiglia di Fabriano fu l’invenzione di un governatore chiamato Gian Mario Spacca, in grado di vincere per due volte le regionali (2005 e 2010) con una coalizione di centrosinistra larghissima, dai centristi alla sinistra radicale, tutti insieme in giunte faraoniche: il partito della regione con sede nell’hinterland anconetano, il sogno di un centrosinistra a guida moderata in grado di dare stabilità. Da qui l’investimento su Mario Monti nel 2013, con candidatura della principessa ereditiera Maria Paola al Senato dopo due legislature alla Camera con il Pd. Le cose sono finite male: l’ultima dei Merloni, entrata per un pelo, ora è naufraga nel gruppo delle Autonomie, dopo aver attraversato le secche di Scelta Civica e Per l’Italia.

Spacca – ex quadro alla Merloni, appunto – l’anno scorso ha tentato per la terza volta di farsi eleggere a Palazzo Raffaello ad Ancona: dopo aver fondato il movimento Marche 2020, varò un’incredibile alleanza con Forza Italia, benedetto da Berlusconi in persona tra i musi lunghissimi dei vari esponenti marchigiani del partito, che tutto si aspettavano nella vita fuorché di dover dividere i posti con un avversario storico. Il risultato fu devastante: quarto posto dietro ai candidati di Pd, 5 Stelle e Fratelli d’Italia, mancato ingresso in consiglio e – è notizia di venerdì – adesso pure una richiesta di condanna a tre anni per l’affaire spese pazze in consiglio regionale.

L’asse del potere nelle Marche si è spostato, forse per sempre: la flessione dei Merloni è coincisa con l’ascesa del Pd di Pesaro, che ora esprime un vicepresidente nazionale del partito (Matteo Ricci) e il presidente della Regione (Luca Ceriscioli).
La morte di re Vittorio è arrivata così, a regno ormai dissolto, in una coincidenza che è propria della storia di tanti uomini che il potere l’hanno conquistato, gestito e infine perduto: triste, solitario e ricchissimo finale. «La sua figura ha lasciato una traccia profonda nell’industria nazionale, portando nei decenni scorsi a risultati significativi un’azienda capace di crescere in rapporto con il territorio», ha detto la presidente della Camera Laura Boldrini. «Merloni ha saputo coniugare la crescita della sua impresa con la coesione sociale», questo il commiato di Roberto Ghisnelli, segretario regionale della Cgil.

A scorrerli, i comunicati di cordoglio che riempiono le agenzie sono tutti al passato, perché oltre all’uomo è morta anche l’idea.