Nell’Italia di oggi, dove basta partecipare a un reality per diventare famosi, o il successo su tik tok per essere ammessi tra i big di Sanremo, Toto Cutugno avrebbe avuto vita più facile. Avrebbe dovuto subire meno esami di maturità, meno critiche snob. Il suo successo internazionale gli avrebbe portato automaticamente la patente di grande star, come poi è successo ad Andrea Bocelli e al Volo, piaccia o meno la loro musica.

CUTUGNO, MORTO IERI a Milano a 80 anni appena compiuti per le conseguenza di un tumore, famiglia di modeste origini, padre militare con la passione per la tromba, il successo lo ha avuto subito, il riconoscimento invece è stato tardivo e parziale. Eppure alzi la mano chi, dagli anni Ottanta in poi, non ha fischiettato la sua hit più famosa, L’Italiano, efficace collage di stereotipi nazionali dagli «spaghetti al dente» all’«autoradio nella mano destra» al «partigiano come presidente» che fuori dai confini ha avuto un successo imperituro, tanto da entrare con Volare tra le canzoni italiani più note nel globo.

UNA CANZONE CHE, ovviamente, non vinse Sanremo, in quel 1983 dove in concorso passarono Vacanze romane dei Matia Bazar e La mia nemica amatissima di Gianni Morandi. Arrivò solo quinta, per poi decollare. Ma la sua genesi dice tanto di quegli anni: Cutugno la pensò in ristorante in Canada, dopo un concerto davanti a 3mila expat, e la propose subito a Celentano, con cui già aveva collaborato con Soli nel 1979. Ma il Molleggiato fece il gran rifiuto: «Non ho bisogno di dire che sono un italiano vero». E così l’idea fu di farla cantare a Gigi Sabani che imitava Celentano, ma alla fine il patron Rivera convinse Toto che doveva portarla lui.

IN QUEGLI ANNI Cutugno, sempre snobbato dalla critica, era un dominus del Festival. Quasi sempre in gara, 15 partecipazioni, 5 secondi posti. Tenebroso e a volte scorbutico, («Ho un carattere di m., l’anima è meglio», spiegò) nel 1988 dovette piegarsi davanti a Perdere l’amore di Massimo Ranieri, che era tornato in gara dopo vent’anni. E sbuffò: «Grande Massimo, ma non potevi aspettare un anno in più prima di tornare?». Nel 1990 stessa sorte: primi arrivarono i Pooh con Uomini soli, lui secondo con Gli amori, «due consonanti perse in tre vocali», nonostante l’abbinamento con Ray Charles.

Qualche critico lo insolentì: «Ray Charles renderebbe musicale anche l’elenco telefonico…». Fatto che sta che poi i due rimasero legati. Per la cronaca: Sanremo lo vinse una sola volta, nel 1980, con Solo noi. E tuttavia resterà per sempre «l’eterno secondo», legato al cliché del cantante dei buoni sentimenti, i figli, le mamme, gli amori. «Per questo mi hanno definito un ruffiano, uno che cerca di vincere facile con le emozioni. Io penso solo di essere autentico».

NEL 2013 FABIO FAZIO lo chiamò come super ospite, insieme al coro dell’armata rossa, per cantare L’italiano e Volare. Lo stesso coro tre anni dopo fu decimato in un disastro aereo sul mar Nero. La Russia è stata uno dei paesi in cui il suo successo è stato più clamoroso: venerato e chiamato «maestro», coccolato da oligarchi e popolo, nel 2019 fu accusato da un gruppo di parlamentari ucraini di essere «un agente di sostegno della guerra russa». Chiesero di non farlo più entrare nel paese, lui si indignò: «Ma come, pochi anni fa mi hanno proclamato “persona dell’anno”, io amo l’Ucraina, Putin l’ho visto una volta sola, sono apolitico». Alla fine lo fecero cantare. La politica non l’ha mai appassionato. Cuore a destra, ma fu bersaglio di Salvini per le sue posizioni pro immigrati.

NELLA SUA CARRIERA ha collaborato con tanti colleghi, da Dalida a Miguel Bosè, Fausto Leali, Franco Califano, Peppino di Capri, i Ricchi e poveri, oltre ad aver scritto sigle tv per i programmi di Mike Bongiorno. Negli anni Novanta diventa anche conduttore televisivo, da Piacere Raiuno (dove aveva un gruppo di vallette chiamate «le tate di Toto») a I Fatti vostri.

Nel 2007 la scoperta casuale della malattia, grazie alle pressioni di Al Bano che lo costrinse a farsi visitare da un urologo. Il tumore era già arrivato ai reni. Ricorda il collega e amico: «I medici mi dissero che aveva solo 5 mesi di vita. Invece ha resistito 15 anni. Un vero miracolo». Dopo l’intervento ha vinto la sua proverbiale riservatezza e ha deciso di parlarne per sensibilizzare gli uomini sulla necessità di prevenzione per il tumore alla prostata. Lascia la moglie Carla e il figlio Nico, nato nel 1989 da un’altra relazione. Tra i ricordi, quello più scontato di Giorgia Meloni: «Ciao a un italiano vero».