Nell’autoritratto in bianco e nero, la ragazza con la frangetta e la Rolleiflex di medio formato (ben salda tra le mani) guarda senza esitazione di fronte a sé. Siamo nella prima metà degli anni ’50 e Sabine Weiss (nata Weber a Saint-Gingolph, Svizzera 1924 – Parigi 2021) già da qualche anno sa che il suo destino sarà legato per sempre da una parte alla fotografia, dall’altra all’uomo che ama veramente: il pittore americano Hugh Weiss (1925-2007). È proprio lui che affermava che quando Sabine «fotografa i bambini, diventa bambina lei stessa. Non esistono assolutamente barriere tra lei, loro e la sua macchina fotografica». Una frase-guida che accompagnerà la retrospettiva promossa dalla Fondazione di Venezia dedicata alla fotografa svizzera, naturalizzata francese, in programma alla Casa dei Tre Oci di Venezia dall’11 marzo al 23 ottobre 2022.

PURTROPPO lei non ci sarà malgrado la sua attiva partecipazione, fino all’ultimo istante della sua vita, alla selezione delle immagini dalla casa-studio parigina, nel XVI arrondissement, dove risiedeva dal 1949. Non era ribelle e non amava le etichette – né di femminista né tanto meno di fotografa umanista – però di fatto le appartengono entrambe. Era anche tenace, essenziale e rigorosa. Non deve esser stato facile, del resto, trovare uno spazio tutto suo nell’ambito di una professione maschile, ma c’era riuscita fin dal ’42 quando aveva appreso questo mestiere nello studio Boissonnas di Ginevra. Subito dopo, in Svizzera, aprì il proprio studio attivo fino al 1945, per trasferirsi l’anno seguente a Parigi. Fotografare per lei era un’esigenza in cui lo sguardo, il concetto e la tecnica dovevano essere assolutamente complementari. Arte o artigianato? Senza esitazione optava per la seconda. Proprio le potenzialità della luce naturale, apprese lavorando nello studio del fotografo di moda Willy Maywald, la indirizzarono verso una fotografia molto più libera.

USCIRE IN STRADA incentrando la sua poetica sull’essere umano – grazie all’incontro altrettanto significativo con Robert Doisneau che nel ’52 le propose di collaborare con l’agenzia fotogiornalistica Rapho che gestiva anche il lavoro di altri interpreti della fotografia umanista, tra cui Willy Ronis e Edouard Boubat – diventerà quella vocazione per cui Weiss veniva a giusta ragione considerata l’ultima esponente di questa corrente della fotografia nata in Europa nel dopoguerra. Nella mitica mostra The Family of Man (1955), organizzata al MoMa di New York da Edward Steichen per celebrare la vita e la pace, furono esposte anche tre sue fotografie. Dal reportage alla pubblicità, dalla moda all’architettura non c’è genere in cui Weiss non si sia cimentata con la stessa coerenza, pubblicando anche i ritratti di Stravinsky, Dubuffet, Chanel, Léger, Sagan e altri grandi personaggi su testati come Vogue, Life, Time Magazine, Elle, Newsweek, Paris Match. Insignita nel 1999 del titolo di Ufficiale delle Arti e delle Lettere, Weiss a cui l’ultima edizione dei Rencontres d’Arles ha dedicato un’importante antologica in quanto vincitrice del Women In Motion Award 2020, ha donato il suo intero archivio al Musée de l’Elysée (Photo Elysée) di Losanna.