Nelle fotografie di gruppo, nei numerosi filmati d’epoca Nelson Pereira dos Santos è il composto signore spesso in giacca e cravatta seduto preferibilmente al centro o a capotavola, circondato dai più giovani e scanzonati registi del Cinema Novo pur con le loro serissime teorie cinematografiche. Era il più adulto tra loro, autorevole, a lui si guardava con rispetto. «Nelson è il papà e il papà del cinema Novo» diceva Glauber Rocha. Molti di loro sono ormai scomparsi da anni come Rocha, Saraceni, Leon Hirszman, Gustavo Dahl, Ruy Guerra ed ora non c’è più neanche Nelson Pereira dos Santos, scomparso sabato all’età di 89 anni (era nato a San Paolo nel 1928) per una complicazione polmonare.

Quando irruppe sulla scena internazionale il nuovo movimento di cinema brasiliano negli anni sessanta, Nelson che si può considerare di quel gruppo un precursore, aveva già iniziato da tempo le sue indagini e aperto la strada. Gli studi al Centro Sperimentale di Roma (dopo quelli di giurisprudenza) frequentato anche da numerosi altri registi del cinema latinoamericano gli avevano aperto gli scenari del neorealismo e fatto nascere l’ammirazione per Pasolini. «In un incontro internazionale a Parigi sulla libertà di espressione – ci raccontò – fui seduto accanto a Zavattini, quello fu il mio master in comunicazione».  Ma aveva già iniziato le sue prove di regia nel 1949 con il documentario Juventude, presentato a un congresso della gioventù comunista, realizza quindi la trilogia su Rio (Rio 40 Graus, Rio Zona Norte, Rio Zona Sul). Soprattutto Rio 40 gradi diventò un film di riferimento per il Cinema Novo, «un faro», una rivoluzione in fatto di produzione lo definì Rocha. Incappò anche nelle maglie della censura, perché non raccontava la realtà secondo i censori («A Rio ci sono 39 gradi, 60» sostenevano) e poi riabilitato. Il movimento proseguì come risposta alla grande industria cinematografica del paese, che produceva per lo più commedie (le chanchadas), l’Atlantida che guardava agli Usa o anche quella breve straordinaria esperienza dei nostri Adolfo Celi, Luciano Salce, Fabio Carpi che intervenivano su immaginari italiani ed europei.

Il cinema novo uscì dagli studi con camere a mano alla scoperta dello specifico brasiliano, raccontavano il sottosviluppo, mettevano a fuoco le sacche di povertà, i sogni più sepolti del paese. Nelson Pereira dos Santos già in due congressi sulla settima arte nel ’52 e ’53 aveva sostenuto la «via brasiliana al cinema» esplorata poi in grande varietà di stili, bel cinema e impegno militante da parte dei componenti del movimento. Anche Nelson ne prende parte in maniera attiva, gruppo compatto dove spesso ci si scambiava i ruoli, montando nel ’61 Barravento di Glauber Rocha o Pedreira di Hirschman e spostandosi da Rio al nordest all’avanscoperta di territori mai prima esplorati con Vidas Secas (1963) che apriva una finestra sulla letteratura del paese attraverso il racconto, quanto mai attuale, dell’esodo di una famiglia dalle zone di siccità verso una speranza di vita migliore.

Una rivoluzione nel cinema brasiliano  dove far emergere materiali volti, musica, ambientazioni, film memorabile e fondativo che fu presentato a Cannes nel ’64, basato sul romanzo omonimo di Graciliano Ramos del ’38, scrittore, uomo politico (poi detenuto durante la dittatura di Vargas accusato di aver favorito i comunisti)  che diede voce in varie sue opere ai poveri del sertao, agli indios dimenticati e a cui Nelson si riferì spesso anche in seguito (Insoñia, Memórias do cárcere).

Abbiamo incontrato più volte il regista, fin da quando quasi tutto il cinema novo al completo frequentava il festival di Pesaro, registi coinvolti da Bruno Torri che era andato a incontrarli in Brasile, o che già si trovavano in Italia in esilio per la dittatura. Tra l’altro ci raccontò che il termine «cinema novo» era nato per la passione delle riviste italiane del settore, tra cui «Cinema Nuovo» era una delle più autorevoli e per questo nell’ambiente erano conosciuti come «quelli del cinema novo».    Si vide a Pesaro tra l’altro il memorabile  Como era gostoso o meu francês  (1971) dall’ironico tono anticolonialista e antropofago, in cui tutta la riscoperta antropologica, lo studio sulla conquista e sullo sterminio degli indios prendeva forma. Accanto ai lungometraggi che illustravano la trasformazione urbana del paese, i film rurali e fantastici come quelli di Rocha o dai riferimenti letterari come quelli di Nelson Pereira dos Santos esprimevano veramente  nuovo cinema.

Ha continuato a veicolare letteratura latinoamericana, una complessa funzione culturale, anche con Jubiabá dell’86 dal romanzo di Jorge Amado, un altro autore che lo ha ispirato fin dalle prime opere, A terceira Margem do Rio (’94) da racconti di Joao Guimaraes Rosa presentato alla Berlinale. Regista dalla filmografia vastissima e dall’attività instancabile, quando lo incontrammo dieci anni fa stava scrivendo due sceneggiature una sulla guerra in Paraguay e su Oswald de Andrade, oltre che sui primi cento giorni del presidente Lula. Ha fondato il corso di cinema alla università Federal Fluminense  e svolto attività di professore, primo regista a entrare nell’accademia letteraria brasiliana.
Tra i suoi ultimi film  Antonio Carlos Jobim (2012) e l’ultimo A Luz do Tom (2013) documentario basato sul libro Antonio Carlos Jobim un homem iluminado di Helena Jobim, la bossa nova come altra invenzione parallela al cinema novo che batte con il ritmo degli anni sessanta, forse passata oggi di moda, marchio indelebile di un’epoca, la musica come forma di riscatto sociale come raccontava nel suo Rio Zona norte.