Carattere composito, curioso e vivacissimo, Alessandro Mendini lo ricorderemo come il designer che dalla fine degli anni Settanta ricercò un’alternativa alla serialità industriale della gute form: rigorosa e inossidabile alle «oscillazioni del gusto», facendosi artefice disincantato di oggetti, arredi e architetture il cui aspetto formale era il risultato della contaminazione di molteplici linguaggi e di un’esecuzione artigianale.

Tra i fondatori con Adriana Guerriero del gruppo Alchimia (1977 – 1992), Mendini partecipò al generale clima di messa in discussione del design così come ereditato dalla tradizione del moderno sovvertendone in modo eccentrico e ludico le regole affinché fosse valida «l’ipotesi che debbano convivere metodi di ideazione e di produzione confusi, dove possano mescolarsi artigianato, industria, informatica, tecniche e materiali attuali e inattuali».

Mendini insieme a Ettore Sottsass e Andrea Branzi è stato tra i più ascoltati teorici dell’estetica del radical design italiano. Dalle pagine di Casabella, che diresse per sei anni dal 1970, trovò ampio spazio l’architettura radicale nelle manifestazioni utopiche e visionarie dei nostri UFO, Archizoom, Superstudio, Ugo La Pietra e degli stranieri Emilio Ambasz, Hans Hollein, Peter Eisenman, John Hejduk, Site altri ancora. La sperimentazione di spazi e oggetti in grado di sovvertire le relazioni tra forma e funzione sono quelle che lo spingeranno a non porre barriere alla creatività e all’uso disinvolto della storia, ridotta a un repertorio di forme e materiali scambiabili secondo il loro grado di empatia e carica simbolica. Il Mobile Infinito (1981) è un esempio della sua «utopia visiva» che includeva qualsiasi disciplina artistica: dal teatro (Magazzini Criminali) alla musica (Matia Bazar).

In questo universo di immagini l’ornamento ritrovava in Mendini un ruolo centrale poiché il solo antropologicamente significativo. È sufficiente, a riguardo, citare i suoi più famosi oggetti d’arredo o per la casa: dalla poltrona Proust per Alchimia (1976) al cavatappi Anna G per Alessi (1994) fino alla lampada Amuleto per Ramun (2013). Nell’anno 2000 fonda insieme al fratello Francesco l’Atelier Mendini. L’indagine sulla valenza simbolica dell’oggetto segna l’ultimo fase della sua vita come se progressivamente si fosse lentamente placata con l’età la forza di quell’anticonformismo in forme eclettiche dell’inizio della sua avventura artistica e professionale.

Le Tête Géante (2001-2009) ne sono l’esempio eloquente insieme alla combinazione di volumi e sagome semplici e elementari che ormai amava maneggiare combinandole con diversi materiali. Ci sarà ancora modo, in un prossimo futuro, di misurare il suo lascito culturale. Nel momento della sua morte non possiamo che ammettere che una seria coerenza ha distinto il suo lavoro non perché gli interessasse il progetto, come lui stesso ammise, ma perché la «realtà progettuale» gli permise ciò che era il suo «naturale atto vitale, quello di produrre immagini», e di questo non possiamo che essergliene grati.