«Io ero al servizio del talento letterario di un uomo, l’ho servito con obbedienza, ho servito una mente maschile, dunque per molti maschi sono la ragazza dei sogni, sono anche la loro potenziale vedova. Sono stata la segretaria di Levin, la sua archivista, moglie, redattrice, agente… Non mi sono risposata, ho continuato a servirlo dopo la sua morte e lo servirò fino alla mia morte. Lui inoltre mi ha lasciato un capitale simbolico, che io con una gestione attenta, ho accresciuto». Così, nello splendido ultimo libro di Dubravka Ugresic pubblicato da La nave di Teseo (La volpe, 2022), parla la protagonista di «L’arte dell’equilibrio», incrocio tra racconto, cronaca e saggio sull’incontro dell’autrice con la Vedova di un anziano scrittore.

PAROLE SIMILI potrebbe averle dette qualsiasi Vedova illustre – la maiuscola è d’obbligo -, dall’immaginaria Mrs. Driffield di Lo scheletro nell’armadio di Somerset Maugham, fino a quelle realmente esistite ed esistenti, eredi non solo dei diritti, ma del ruolo di curatrici postume: vestali, dunque, e a volte martiri volontarie, ma anche menadi, «creature temibili, onnipresenti e disposte a fare a pezzi chiunque osi toccare il legato del defunto», secondo la definizione di Marcos Eymar (e qui va notato che ai Vedovi, compresi i più discutibili, viene di solito riservata minore e più indulgente attenzione).
Anche María Kodama, scomparsa il 26 marzo a ottantasei anni nella sua casa di Buenos Aires, ha pronunciato frasi del genere nelle innumerevoli interviste e apparizioni pubbliche che la vedevano volare da un continente all’altro per parlare di Jorge Luis Borges, incontrato sulla soglia di una libreria (così dice la leggenda) quando lei aveva sedici anni e lui cinquantaquattro, e da allora mai più abbandonato, fino alla morte avvenuta nel 1986 a Ginevra, dove lo scrittore è sepolto sotto una scritta in inglese antico corredata da immagini guerriere, in stridente contrasto con la spoglia lapide della sua «vicina» Griselidis Real, su cui si legge: «Ecrivaine, peintre, prostituée».
Borges l’aveva sposata in Paraguay cinquanta giorni prima di morire (quando, tra l’altro, in Argentina il suo primo matrimonio con Elsa Astete era ancora valido), ma Kodama era da tempo la sua compagna e insieme avevano viaggiato per il mondo, raccogliendo gli omaggi dovuti a una fama straordinaria quanto tardiva, destinata a riflettersi su quella misteriosa ragazza dall’aria esotica, figlia di un chimico giapponese e di un’argentina di origine svizzero-tedesca, nonché la prima tra le molte donne amate dallo scrittore (perennemente enamoradizo, ma inorridito dal sesso e controllato da una madre tiranna) a non respingerlo e a offrirgli un amore in cui il corpo non aveva importanza né peso.

NON CI SONO DUBBI sulla passione quasi religiosa di Kodama per il Genio, e ancor più sulla sua inflessibilità di guardiana dell’opera, eppure la polemica ha sempre accompagnato, non troppo in sordina, una vedovanza aggressiva, prodiga di cause giudiziarie (quando pretese parte del compenso dovuto al poeta Osvaldo Ferrari per il suo libro Diálogos con Borges, un tribunale francese respinse la richiesta, affermando che «l’universo dei diritti di María Kodama ha i suoi limiti e non è in perpetua espansione») e accusata di protagonismo sfrenato e di uno sfruttamento più che disinvolto dei testi borgesiani.
Le Nouvel Observateur arrivò a sostenere che l’opera di Borges fosse, di fatto, ostaggio della Vedova, e in molti hanno insinuato (o affermato con certezza, come la sorella di Borges) che Kodama aveva allontanato dagli amici e dalla famiglia il vecchio scrittore, imponendogli un trasferimento in Europa quando era quasi moribondo e facendosi nominare erede universale.

PRONTA A LAMENTARSI per «l’invidia e la gelosia» suscitate dal suo ruolo, Kodama non esitava a insultare vigorosamente «i mostri», ossia coloro che, in passato, Borges aveva accolto tra i suoi affetti: la fidata governante Fanny era «una ladra», María Esther Vázquez – a lungo e invano amata dallo scrittore – una bugiarda odiosa, e Adolfo Bioy Casares, legato a Borges da oltre cinquant’anni di amicizia, «un Salieri, un codardo, un rifiuto umano» (l’intervista al quotidiano La Nación che conteneva queste dichiarazioni suscitò l’indignazione e la disapprovazione pubblica degli scrittori argentini). Se per alcuni era una bruja, una strega, altri, come Vargas Llosa o Jean-Pierre Bernés – curatore dell’opera omnia di Borges per Gallimard, ma detestato da Kodama perché non voleva cederle le registrazioni di lunghi colloqui con lo scrittore – ne hanno tuttavia lodato la devozione e le cure.
Che sia amata o detestata, corteggiata o disprezzata, Kodama, divenuta negli anni una sorta di riconoscibile icona pop, resta una figura controversa, e molti sono gli interrogativi posti dalla sua morte, anche se a vegliare sull’opera di Borges c’è un agente duro e abile come Andrew Wylie. Non sappiamo quale sarà l’epitaffio di María, ma a scriverne uno ha involontariamente provveduto il critico spagnolo Jorge Carrión, in un articolo del 2016 per il New York Times: «È un errore pensare che la gestione delle eredità letterarie da parte delle vedove non sia letteratura», tanto che in un lontano futuro Kodama, «appropriazionista» quanto e più del suo glorioso marito, verrà forse ricordata dai critici come «un’artista punk, una stratega concettuale che si vendicò dell’eteropatriarcato, del canone maschile, della stupida fede della nostra epoca nell’autorialità»