Ha avuto la fortuna, Lara-Vinca Masini (Firenze 21 aprile 1923 – 9 gennaio 2021) di vedere prima di morire la pubblicazione di un volume riassuntivo di suoi Scritti scelti 1961-2019, dovuto alla cura scrupolosa di Alessandra Acocella e Angelika Stepken, due studiose di qualche generazione più giovani. Si tratta di un volume di oltre quattrocento pagine pubblicato da Gli Ori nel 2020, volto a restituire l’ampiezza di interessi militanti della studiosa, fra arte e design, architettura e nuovi linguaggi.

DA LÌ SI POTRÀ PARTIRE per ulteriori scandagli nello sconfinato archivio, che nel 2010 aveva deciso di destinare post mortem al Centro Pecci di Prato. Ciò che conta, insomma, è che Lara-Vinca Masini ha fatto in tempo a veder tornare di interesse, presso i più giovani, una storia dell’avanguardia a Firenze nel dopoguerra di cui era stata indiscussa protagonista. E a veder studiare, con puntiglio filologico, esperienze quali Umanesimo, disumanesimo nell’arte europea 1890/1980, la mostra da lei curata nel 1980 con dieci installazioni in altrettanti luoghi storici della città – scandalosa per i benpensanti ma cruciale per la formazione di una coscienza del contemporaneo – e ribadito come il presente potesse irrompere proficuamente fra mura antiche dal passato glorioso.
Il suo impegno militante, però, aveva radici più remote, toccando alcuni vertici negli anni Settanta, dal coordinamento dei lavori del Museo Progressivo Arte Contemporanea di Livorno, nel 1974, alla mostra Topologia e morfogenesi alla Biennale di Venezia del 1978. Fra queste due esperienze si incuneava un volume importante sull’Art Nouveau, forse il suo libro più fortunato, pubblicato per la prima volta da Giunti nel 1976 e più volte riedito in Italia e all’estero.
Da lontano, forse, discuteva con il testo sul Liberty italiano di Rossana Bossaglia, uscito otto anni prima, puntando però su una prospettiva internazionale e su diverse premesse teoriche. In un gioco di specchi fra passato e presente, arti belle e arti applicate, idee di ambiente e spazio architettonico andavano a formare unità inscindibili pur senza chiamare in ballo l’antico concetto di «sintesi delle arti», e senza stabilire gerarchie ma seguendo un’intemperante curiosità personale.

ERA LA LEZIONE di Carlo Ludovico Ragghianti, con cui si forma nella redazione di «SeleArte» negli anni Cinquanta, e di Giulio Carlo Argan, conosciuto ai tempi dei convegni di Verucchio, che diventerà un vero e proprio punto di riferimento. Viene da lui, in fondo, una delle idee portanti del pensiero critico di Lara-Vinca Masini, programmaticamente esplicitata in una grande opera di sintesi del contemporaneo alla fine degli anni Ottanta: l’individuazione di un’oscillazione fra due poli concettuali, la «linea dell’unicità» e la «linea del modello», che sovrintendono ai modi dell’espressione e all’idea del progetto. Ma solo un critico che aveva avuto Firenze come punto di osservazione (e la Firenze di Michelucci accanto a quella di Leon Battista Alberti) poteva pensare all’«umanesimo» – messo alla prova dell’Antirinascimento di Battisti – come punto di crisi esistenziale e pertanto ipotesi di lavoro feconda per un’esposizione che tenesse insieme Luciano Fabro e Sandro Chia, Rebecca Horn e Vostell, gli amici Fabio Mauri e Giuseppe Chiari, oltre una mostra storica eloquentemente compresa fra Simbolismo e Nouveau Realisme, allestita da Gian Piero Frassinelli/Superstudio: un termine strettamente legato alla città, e all’azzardo, scriveva allora, di «tentare, ancora una volta, di romperla con l’immagine stereotipa e bloccata di questa città».