Il teatro italiano perde oggi uno dei suoi padri nobili, e nello stesso tempo più semplici e «naturali». E non solo il teatro, perché la sua impronta artistica segna ancora oggi un episodio tra i più significativi, e forse «rivoluzionari», della nostra storia recente. È morto ieri a Firenze Giuliano Scabia, dopo aver combattuto contro una malattia crudele, che a differenza di tutti noi non si è fatta incantare o rapire dalle storie meravigliose che lui raccontava. Era nato a Padova nel 1935, ma fino a un momento fa non aveva mai mostrato il peso degli anni, nella quotidianità della sua vita fiorentina, in bicicletta attorno al mercato di Sant’Ambrogio o verso la Sinagoga, col sorriso sulle labbra e i capelli candidi al vento. O nelle avventure notturne per boschi e valli in cui magnetizzava cortei di spettatori ammaliati dalle sue storie.

È STATO UN GRANDE innovatore Giuliano Scabia, che sempre soave e sorridente, ha forgiato nel profondo diverse generazioni di teatranti, di cui la sua cattedra di drammaturgia, per tanti anni al Dams bolognese, è stato luogo di formazione e approfondimento. Ma soprattutto, per il grande pubblico, e per l’intera società (e democrazia) italiana, ha dato un volto bizzarro (e giustamente imbizzarrito) quanto liberatorio, un segno artistico dirompente, a una delle conquiste sociali più radicali e sofferte del nostro paese, la riforma psichiatrica di Franco Basaglia. La chiusura dei manicomi, e la distruzione delle loro barriere segregatrici, ha il volto, nell’immaginario collettivo, del suo Marco Cavallo, il grande pupazzo azzurro di cartapesta, dalle sembianze equine, che uscì dal manicomio triestino di San Giovanni abbattendone i cancelli e i recinti secolari. Un gesto liberatorio e davvero eversivo, che l’Italia si conquistò grazie a quel pugno di psichiatri coraggiosi che tutto il mondo apprezza e riverisce, e con i quali Scabia si era molto coinvolto e divertito a collaborare. Era la stessa passione con cui portò a Torino, appena reduce dall’autunno caldo, il Teatro nello spazio degli scontri. Così come nel ’75, per la Biennale teatro di Luca Ronconi andò a Mira e a Marghera, dietro il Petrolchimico, a cercare di svelare La vera storia.

Giuliano Scabia

LA SUA È STATA una lunga storia di narrazione e creatività, mai disgiunte dalla passione civile, spesso sublimata in poesia. Aveva cominciato a farsi conoscere nei primi anni 60: cominciando a scrivere, compose i «libretti» di un paio d’opere di Luigi Nono, affiancò il Gruppo 63 della neoavanguardia letteraria, e approntò un testo (dal titolo misterico e chilometrico) per il suo primo spettacolo, con regia di Carlo Quartucci. Nel ’67 fu uno degli animatori ad Ivrea del convegno «per un nuovo teatro», e ormai aveva cominciato a diffondere e pubblicare i suoi testi, che erano poi traccia di percorso per una formula teatrale da lui congegnata e scaturita (anche per gli imitatori). Che consisteva nel condividere, autore e spettatore, una esperienza di concentrazione, magari in un bosco notturno, oppure camminando «alla scoperta» di qualche misteriosa meta, in cui prendevano vita i suoi racconti, fascinosi e di esemplare semplicità, ma da cui potevano scaturire valori e riflessioni di grande portata. Narrati da lui stesso, con le armi della teatralità e col fascino di creature a forma di animale, che da sempre hanno popolato la sua opera, dal Gorilla quadrumano a Nane Oca (serie di romanzi pubblicati da Einaudi, come gran parte delle sue opere da diversi anni). Con il successo esplosivo, ovviamente, di Marco Cavallo che evade dal manicomio triestino e da tutta la vecchia psichiatria repressiva.

UN SUO TESTO degli anni 70, Fantastica visione, segnò la prima affermazione come regista di Massimo Castri, poi suo dirimpettaio di casa a via dei Pilastri a Firenze. Con grandi e continuati scontri d’artista, e un rapporto rimasto perpetuo tra la dolcezza dell’uno e la grinta aggressiva dell’altro. Era molto amato da tutti Giuliano Scabia nell’ambiente del teatro. Le sue «favole» di grande valore civile sono divenute un modello di narrazione e una forma di ascolto. Da diversi anni usava comporre e spedire a trecento amici, per le feste di fine anno, un nuovo componimento, scrivendone personalmente l’indirizzo sulla busta.
Piccoli indizi di una umiltà e di un calore umano, con cui continuava ad affascinare nuove generazioni di spettatori, tutti consapevoli del privilegio di partecipare ai suoi «racconti». Dall’Amiata alla Cividale del Mittelfest, dall’Appennino reggiano alla sua prediletta Venezia per le cui calli, e ponti e canali, aveva cominciato le sue peregrinazioni narrative e a cui era sempre rimasto legato. Era un outsider, fuori dalle regole e dalle convenzioni correnti e abituali, ma capace di una profondità che non lasciava incolumi. Le sue parole, il suo occhio avveduto, il fascino del narratore miravano dritto al cuore e alla mente dell’ascoltatore pellegrino. E ogni esperienza compiuta con lui rimane straordinaria. Anche nei tempi lunghi della memoria.