Di fronte all’irreparabilità del distacco sancito dalla morte assume una risonanza malinconica la frase di Emmanuel Lévinas che Adam Zagajewski ha posto a esergo di quella che s’è rivelata la sua ultima raccolta, Prawdziwe zycie: «La vita vera è altrove, ma noi siamo qui». Un’affermazione che il poeta scomparso domenica a Cracovia interpretava ironicamente alla luce del socratico «sapere di non sapere»: nei suoi tratti positivi la «vita vera» ci sfugge, eppure la flagrante insufficienza dell’hic et nunc è di per sé prova che una dimensione autentica deve pur esistere.

IL MIRAGGIO di un eutopos lucidamente riconosciuto come irraggiungibile, ma non per questo meno intensamente vagheggiato, era presente nella sua opera sin dalle origini, sotto forma di quella città natale mai realmente esperita, Leopoli, evocata nelle prose autobiografiche di Tradimento (Adelphi, 2007, a cura di Luca Bernardini). Qui la «piccola patria» che il poeta era stato costretto a lasciare a pochi mesi di vita nell’autunno del 1945, deportato dai sovietici verso ovest, si trasforma nell’archetipo di ogni successivo «altrove» – un luogo onirico e immateriale che, proprio come nel gioco infantile del rocchetto descritto da Freud, può essere richiamato alla mente a piacimento in qualsiasi istante. La scomparsa fisica della «città celeste» d’anteguerra diventava paradossalmente garanzia della sua onnipresenza nello spazio e nel tempo: «Andare a Leopoli. Da quale stazione andare/ a Leopoli, se non in sogno, all’alba,/ quando la rugiada ricopre le valigie e proprio allora/ nascono i rapidi e gli espressi fare solo le valigie, sempre, ogni giorno/ e andare fino all’ultimo respiro, andare/ a Leopoli, è infatti pur vero che esiste,/ serena e pura come una pesca/ Leopoli è ovunque».

Niente a che vedere con la «terrena» Gliwice, la località slesiana in cui Zagajewski si stabilì insieme alla famiglia e al resto della popolazione polacca scacciata da Leopoli. Disperante nel suo grigiore, la città in cui il poeta si trovò a crescere era sfondo tuttavia di un ennesimo détournement: ogni cosa – dalle suppellettili agli interni delle case alle vie – testimoniava infatti inequivocabilmente che Gliwice era sempre stata tedesca (col nome di Gleiwitz), almeno fino a quando i suoi abitanti non erano stati deportati per lasciar spazio ai profughi provenienti dai territori polacchi orientali annessi dall’Unione Sovietica.

L’esperienza dello sradicamento s’inscrive dunque nella biografia dell’autore in una prospettiva duplice e speculare («Alcuni parlavano polacco, altri tedesco/ solo il pianto era cosmopolita», dirà in Terra), generando in lui un istintivo scetticismo nei confronti di ogni presunta «necessità» storica. Al contempo, la dolorosa percezione dello iato incolmabile tra ciò che è e ciò che potrebbe (dovrebbe) essere, trasmessagli fin da bambino dai genitori esuli e poi ulteriormente esacerbata dallo scontro con il regime comunista, viene declinata nella sua opera in una tonalità meditativa che col passare degli anni si farà sempre più evidente e a cui non è estraneo il filtro dell’(auto)ironia. Man mano che Parigi, Berlino o gli Stati Uniti si sostituiscono all’immagine idealizzata di Leopoli, l’esistenza empirica si scompone infatti attraverso il prisma dei mitologemi nazionali e delle aspirazioni individuali. Se già in Versi sulla Polonia Zagajewski si diceva «lettore smaliziato», sedotto malgre soi da «quest’indifeso paese delle fiabe,/ di cui si cibano aquile nere, imperatori/ famelici, il Terzo Reich e la Terza Roma», nelle raccolte d’inizio millennio il poeta rielabora il motivo della cacciata dall’Eden sotto forma di eterno nomadismo o globale flânerie sullo sfondo dei terminal aeroportuali e degli ex paradisi naturali fagocitati dal turismo di massa.

Mentre il suo stile tende a un minimalismo pensoso, lontano dal «barocco» degli esordi, Zagajewski si raffigura in una serie di «autoscatti in versi», nelle pose e nelle circostanze più disparate (Autoritratto non scevro da dubbi, Autoritratto in aereo, perfino un Autoritratto con flebo), sostanziando così la sua convinzione che tra volto umano e componimento poetico esista una profonda affinità: «entrambi condividono la maggior concentrazione di significato nel minor spazio».

IMMUTATO nell’io lirico resta, d’altronde, lo spaesamento, la sensazione di intrattenere col reale un rapporto destinato a risolversi fatalmente nei termini di un asimmetria – e Asymetria, non a caso, è il titolo di una silloge del 2014 ampiamente tradotta da Marco Bruno nella raccolta Guarire dal silenzio. Nuovi versi e poesie scelte (Mondadori, Lo Specchio) che si è aggiunta di recente a quella «classica» curata da Krysztyna Jaworska per Adelphi, Dalla vita degli oggetti. Fondamentalmente asimmetrica è la relazione tra scrittore e pubblico; nella Nuvola i poeti costruiscono rifugi di parole per i lettori, pur nell’impossibilità di potervi risiedere in prima persona; un’ossessione diversa li spingerà infatti ben presto allo scoperto, in cerca di un nuovo riparo verbale che, tuttavia, si rivelerà non meno provvisorio del precedente. Un altro sfalsamento temporale, ancora più irrimediabile, è quello che impedisce ai figli di vedere i propri genitori «nella luce abbagliante della verità», come emerge dal magnifico trittico dedicato alla madre defunta: «Di mia madre non saprei che raccontare -/ lei che ripete, un giorno te ne pentirai,/ quando non ci sarò più/ e io non credevo né al ‘non ci sarò’, né al ‘più’ e lei che mi perdonava tutto, e io me lo ricordo,/ ricordo il volo da Houston per il suo/ funerale e la commedia vista in aereo e io/ che piango dal gran ridere e dal rimpianto,/ io che non sapevo che dire,/ e ancora non lo so».

QUI L’ASIMMETRIA definitiva diventa quella che separa vivi e morti, un abisso di fronte al quale la voce del poeta si incrina, ma non tace. Forse proprio perché anche i versi – così scriveva in Tradimento – ci arrivano da un altrove inattingibile: «I versi vengono da un altro mondo. Quale? Non lo so».