Il primo Parco Nazionale Americano (il primo parco nazionale al mondo in effetti) ufficialmente istituito, nel 1872, è stato quello di Yellowstone, noto set delle vicende dell’orso Yoghi, a nord ovest dello Stato del Wyoming(e sconfinante parzialmente negli Stati di Montana e Idaho). Lo ha seguito dopo dodici anni il Sequoia National Park nel sud della Sierra Nevada, California, dando il via alla sistematica messa a punto di sconfinate aree naturalistiche sfociata infine, poco più di cento anni fa, nella costituzione di un National Park Service, istituzione governativa, che raccoglie 59 parchi e 300 vaste zone protette di vario tipo; ci sono «historic site», «national historic landmark» e anche «national monument» come nel caso della Monument Valley, che è in piena riserva Navajo e quindi non è parco nazionale ma è la location più nota e riconoscibile – oltre che delle sventure di Wile E. Coyote (chi sapeva che le fattezze del cartone animato ricalcano quelle di una descrizione dell’animale fatta da Mark Twain?) – anche di ogni saga western che vi salti in mente dai fumetti di Tex Willer allo sconfinato cinema di frontiera: Ombre rosse, Fort Apache (insomma tutto John Ford e John Wayne) ma anche parte di Thelma & Louise, Ritorno al futuro III, 2001 Odissea nello spazio e Forrest Gump. I Parchi sono l’attrattiva statunitense per eccellenza, insieme allo skyline newyorkese e alle spiagge di California e Florida e come questi sono celebrati e familiari in tutto il mondo come vecchie conoscenze mitiche. Grand Canyon, piste indiane lungo il fiume Colorado, mondo western a parte, è la beat generation ad aver portato i nostri sogni a scorrazzare in questi luoghi: la Death Valley di Antonioni con Zabriskie Point, l’ascesa spirituale di Kerouac su per il picco del Matterhorn, nello Yosemite, e i suoi vagabondaggi del dharma per non parlare di quando il mito di On the Road ebbe la bella idea di addestrarsi come avvistatore d’incendi presso il «Picco della Desolazione», nome che doveva pur metterlo in guardia; all’esperienza si deve la stesura di Angeli della desolazione. E ancora l’alpinismo freak ed estremo dei tanti che affrontarono El Capitan, il monilite granitico dello Yosemite, immortalato, e sperimentato, dall’artista e scalatore Glenn Denny.

FredrikSjoberg

Sequoie e uvetta
Come tutte le trame americane anche quella dei parchi nazionali trova insospettabili affluenti da mondi geograficamente e culturalmente lontani dagli States, sorprende dunque solo fino a un certo punto il coinvolgimento alla storia delle grandi aree naturali di almeno due grandi outsider svedesi, più noti nel Nuovo Mondo che a casa propria. Si tratta innanzitutto di Gustav Eisen, classe 1847, che ha legato il suo nome alla fondazione del Sequoia National Park ma è stato anche molto altro: biologo (consulente di Darwin), zoologo, archeologo (avrebbe messo le mani sul Graal), esploratore, cartografo, viticoltore, pioniere; tra le molte altre cose ha anche acquistato un terreno a Fresno (città tristanzuola che si ricorda solo perché in assoluto la più vicina allo Yosemite Park e punto di partenza anche verso il Sequoia National Park e il King Canyon National Park) e lì ha introdotto la coltura negli Usa dell’uvetta, dei fichi e dell’avocado. Un ingegno a dir poco multiforme, dunque, rievocato con una biografia che è romanzo e saggio denso di fuoripista dallo svedese Fredrik Sjoberg, scrittore ed entomologo alla ricerca di storie di poliedrici e stravaganti personaggi stoccolmesi, modello che lui incarna per primo. Oltre che di Eisen, a cui ha dedicato Il re dell’uvetta edito da Iperborea, Sjoberg si è occupato anche di Gunnar Widforss, pittore svedese di una trentina d’anni più giovane del concittadino Eisen, misconosciuto in Nord Europa ma molto conosciuto e amato in Nord America dove è considerato il ritrattista ufficiale dei parchi nazionali Usa e dove gli hanno intitolato una pista e una cima di 2400 metri nel Parco Nazionale del Grand Canyon, in Arizona: il Widforss Point.
Delle grandi riserve naturalistiche che Widforss ha ritratto dai quarant’anni in poi, come Sjoberg spiega nel libro, sempre pubblicato da Iperborea, intitolato L’arte della fuga (ma che nulla ha a che fare con Bach), un altro scrittore, l’americano Wallace Earle Stegner,ebbe a dire: «I parchi sono l’idea migliore che abbiamo mai avuto. Assolutamente americani, assolutamente democratici, mostrano il meglio di noi ». Ovviamente il National Park Service si fregia del commento nella propria home page come farebbe uno scrittore di best seller con una recensione del New York Times in fascetta; ma non è esattamente così che la pensa Sjoberg, che pure ha condotto la sua caccia a Widforss, oltre che su documenti e sul fitto lascito epistolario tra il pittore e sua madre, seguendone le tracce su Mustang d’ordinanza in quegli stessi parchi che definisce «di una bellezza così grandiosa che preferisco evitare di parlarne».
«Troppa luce, troppo di tutto» è il titolo di un capitolo dell’Arte della fuga che si riferisce all’atmosfera natalizia nella casa di Stoccolma del pittore dove pare tirasse un’aria molto simile a quella che si respirava in casa di Fanny & Alexander, ma evoca quello stesso senso di eccesso soverchiante che si percepisce al cospetto dei maestosi paesaggi americani; in effetti certe case come pure quei parchi suscitano la definizione di santuari e un timore sacrale. Le sequoie sono colonne di chiese titaniche e «luoghi sacri» è l’espressione più usata nelle guide ai national park (oltre al fatto che «wildlife sanctuary» è anche la definizione tecnica di certi tipi di aree protette dove ad essere salvaguardati sono innanzitutto gli animali che ci vivono). Gli anni della nascita dei parchi americani, del resto, non sono lontani da quelli della fioritura dei Fiori del male baudelariani «La natura è un tempio dove incerte parole/mormorano pilastri che sono vivi/una foresta di simboli che l’uomo attraversa nei raggi dei loro sguardi familiari ». Eppure vivere le case e il mondo come templi può essere pericoloso e l’effetto tassidermico è sempre in agguato; Sjoberg nella sua curiosa opera di ricostruzione di vicende anomale di eccentrici dimenticati, e un filo perdenti, che hanno bazzicato e celebrato le meraviglie naturalistiche americane ripete che proteggere e conservare panorami grandiosi non è difficile, basta avere i soldi: la varietà invece, sia quella biologica che quella culturale, tende a svanire se rinchiusa in un’enclave. L’epoca degli acquarelli di Widforss e dell’istituzione dei Parchi è quella di Walden ovvero vita nei boschi ( che riecheggia anche negli anni Duemila, da Into the Wild in poi), quando è stata ufficializzata l’invenzione di una «wilderness» che «fa leva più sui sentimenti che sulla scienza». Durante i primi decenni del Novecento, scrive Sjoberg, vigeva una politica ambientale basata sull’idea che si dovessero seminare in giro riserve di natura incontaminata come «domeniche in un paesaggio feriale, ogni riserva naturale un santuario da venerare». Stessa idea e stesso errore sottesi alla costituzione delle riserve indiane, che ha preceduto di pochi anni l’istituzione dello Yellowstone, aree protette «dove ammucchiare povera gente come alternativa allo sterminio, dove trasformare nomadi pagani in agricoltori timorati di dio».

Un pugno di mosche
Friedrik Sjoberg a sua volta da trent’anni ha circoscritto la sua residenza nei confini di un’isola dell’arcipelago di Stoccolma, è lì che torna dopo essersi messo sulle tracce dei personaggi che lo intrigano ed è lì che lo abbiamo raggiunto telefonicamente. «La Terra è troppo grande per me, mi piacciono i limiti… ma il discorso non vale quando è la wilderness ad essere confinata: è una forma di segregazione».
Nella piccola Runmaro, Sjoberg ha studiato e catalogato una specie autoctona di sirfidi, vale a dire mosche, e il testo dedicato all’arte di collezionarle è stato il suo primo successo letterario, dove come suo stile lega spunti autobiografici a riflessioni sul rapporto arte e natura e alla narrazione delle vite degli altri.
«Collezionare è un altro modo per darsi riparo e ordine ed è un’abitudine che spesso genera dipendenza, proprio come l’alcol. Ti occupi di raggruppare cose simili tra loro e non pensi ad altro. Organizzi il mondo, magari gli dai anche un nome». Lo scrittore e biologo, come la sua celebre connazionale, Pippi Calzelunghe, ha l’attitudine del cerca-cose, l’attrazione per gli alberi cavi, e la capacità di superare i limiti, oltre che di vederli.
La collezione di mosche di cui è massimo esperto è stata esposta alla Biennale d’Arte di Venezia del 2009: circostanza che gli ha fatto comprendere da un lato che «l’arte contemporanea internazionale è finita, è completamente allo sfascio», dall’altro come l’esperienza collettoria era finita lasciando spazio a nuove frontiere «quando le mosche lasciarono l’isola capii che tutto era finito e concluso; possedevo un numero di lemmi sufficiente per potermi occupare di un racconto più grande anche al di fuori dell’isola e della sicurezza della delimitazione».

Il senso del ricordo
Racconta Sjoberg, per recuperare la memoria e salvare, con se stesso, anche altri dall’oblio: lo fa con le rocambolesche biografie di outsider come Eisen, Widforss e presto con quella di Anton Dich, pittore danese che finì i suoi giorni a Bordighera nel 1935. Dopo l’acquerellista dei parchi americani, Sjoberg è in caccia dunque di un altro pennello in fuga, un altro figurativo, attraverso il quale celebrare la bellezza «avvicinarsi a quella» scrive «richiede un coraggio di cui gli arroganti, trasgressivi, sarcastici provocatori, non hanno nemmeno idea; le arti figurative hanno ancora una lunga strada da percorrere per riscoprire quella bellezza che la letteratura, la musica, la danza e l’architettura non hanno mai abbandonato. Raramente trovo che l’arte contemporanea sia stata più comprensibile negli ultimi cento anni di quella di oggi. Non trovo pittura di livello… ma la bellezza va recuperata».Viaggiare, raccontare, entrare nella natura, raffigurarla, condividerla per poi essere capaci di restare soli: nell’Arte della fuga Sjoberg rievoca le sue estati da ragazzino un po’ Barone Rampante un po’ birdwatcher e le escursioni notturne in certi luoghi dove non ci sono sentieri e allora bisogna parlare e cantare insieme «era solo all’interno del calore del gruppo che il paesaggio diventava vivo e visibile e senza quella sicurezza non mi sarebbe mai venuta voglia di isolarmi di tanto in tanto». Su tutto il valore della rievocazione e del ricordo: quello di un pino amato, ravvisato in un quadro di Gunnar Widforss, che ha fatto nascere in Fredrik Sjoberg la curiosità per il pittore e lo ha messo in viaggio tra California e Arizona. O quelli di Gustav Eisen che aveva contribuito a salvare gli alberi più grandi del mondo, le sequoie giganti, ma in vecchiaia, camminando lungo Park Avenue, sentiva mormorare gli abeti della sua infanzia svedese.