La siccità nella terra dell’abbondanza. È un paradosso solo apparente quello che descrive un mondo che ha trasformato campi da golf e piscine in status symbol e ora osserva con crescente orrore come il deserto, il sale e gli incendi possano riprendersi rapidamente ciò che alla natura è stato così avidamente sottratto.

La vista sul precipizio, in realtà, l’esito ultimo e drammatico di un ostinato procedere, erano infatti largamente annunciati dai presupposti di un tale modello di sviluppo all’interno del quale il controllo e la gestione dell’acqua sono destinati da sempre ad essere allo stesso tempo emblema concreto e metafora di una sorta di deliberata corsa verso l’autodistruzione.

Il portato di queste vicende è tale da far sì che Acque d’America il bel libro che riunisce le fotografie di Daria Addabbo e i testi di Alessandro Portelli (Jaca Book, pp. 200, euro 70, introduzione di Ferdinando Cotugno) si possa leggere come un’indagine sul destino degli Stati Uniti, le loro molte contraddizioni e la grave crisi (non solo climatica) che stano attraversando.

Lo sguardo degli autori si concentra sulle regioni centro e sud-occidentali del Paese: il racconto per immagini di Addabbo muove dalla California verso il Nevada e l’Oklahoma, e poi giù fino all’Arizona, il New Mexico e il Texas, la storia che compone Portelli, intrecciando mirabilmente – come ha fatto di recente a teatro con il viaggio nell’immaginario americano di Mistery train – la memoria orale trasmessa dalla musica, le tracce lasciate dalla narrativa e gli eventi che hanno scandito le diverse fasi del national building statunitense, finisce per disegnare i contorni di un quadro generale.

La crisi climatica che mostra il suo volto più brutale proprio nelle regioni dell’Ovest del Paese, quelle contese al deserto meno di un secolo fa attingendo senza alcun giudizio né misura alle falde acquifere, sembra così riecheggiare quella «conquista» del West che si compì nel segno del saccheggio e della colonizzazione a metà dell’Ottocento. Una medesima «miope idea di progresso» ha accompagnato lo sviluppo degli Stati Uniti nella convinzione di avere a che fare con un’abbondanza senza fine di terra, spazio, ricchezza e benessere.

Fino a quando le promesse del «sogno», come sottolineato dal folksinger cajun Zachary Richard in La promesse cassée – un brano scritto dopo che l’uragano Katrina si era abbattuto su New Orleans nel 2005 colpendo in modo particolare le zone più povere e meno protette, a maggioranza afroamericana, della città – hanno cominciato «a galleggiare sull’acqua, in mille pezzi, quelli delle nostre vite». Allo stesso modo, il tradimento del sogno americano si compie dove la terra torna ad essere arida e secca, dove accanto a chi dispone di risorse per alimentare chilometri di campi da golf ci sono interi distretti in cui l’acqua e razionata o nelle riserve indiane che non dispongono di elettricità o acquedotti malgrado il loro territorio si affacci su fiumi rigogliosi.

Dalle fotografie di Daria Addabbo traspare quanto l’addomesticamento delle acque sia stato parte del grande racconto nazionale, come testimoniano le immagini delle famiglie in gita alla Hoover Dam, l’enorme diga sul fiume Colorado, a 40 chilometri a sud di Las Vegas, inaugurata nel 1935 da Roosevelt nell’ambito delle grandi opere che contraddistinsero il New Deal.

Perfino Woody Guthrie, che come ricorda Portelli fu ingaggiato nel 1941 per scrivere delle canzoni per un documentario su un analogo progetto, quello di un sistema di dighe sul fiume Columbia, tra l’Oregon e lo Stato di Washington – nacque in quel contesto anche la famosa This Land Is Your Land – condivideva l’idea, di cui le dighe erano l’emblema, di un pieno dominio dell’economia sulla natura, «un’idea di modernità industriale, di civiltà delle macchine a cui Guthrie appartiene sia come americano sia come comunista».

Mariposa, California, 2019. Foto: Daria Addabbo

Eppure, imbrigliata, deviata dal suo corso naturale, trasportata per centinaia di chilometri per sostenere un’agricoltura intensiva che strema la terra, resa da bene comune uno strumento per l’arricchimento di pochi quando non del tutto privatizzata, l’acqua è diventata la grande protagonista della crisi ambientale che attanaglia l’Ovest americano, fino al punto che oggi «la California ha abbastanza acqua per il doppio della sua popolazione, e al tempo stesso la vita in gran parte della California è diventata insostenibile».

Ed ecco che le tracce di questo cambiamento, frutto delle scelte sbagliate dell’uomo e del mito dell’inesauribilità delle risorse che ha scandito le tappe della storia americana, si tramutano in immagini spettrali: laghi prosciugati in California per costruire l’acquedotto di Los Angeles, il deserto dell’Arizona che riconquista nuove fasce di territorio, le terre dei navajo ridotte a distese polverose. Del resto, avvertiva già Bruce Springsteen: «A volte la gente ha bisogno di credere in qualcosa di così cattivo, ma così cattivo che ingaggia un uomo della pioggia».