Chi prende in mano Acque chete (Mirror, pp. 199, s.i.p.) rischia di farsi ingannare dalle apparenze: una lunga introduzione sotto forma di racconto bizzarro firmata da Tommaso Pincio, una galleria fotografica dedicata da Eugenio Tibaldi all’archeologia industriale di Ascoli Piceno, con ogni foto corredata da un disegno astratto dello stesso Tibaldi e da un epigramma in inglese attribuito a un misterioso «Mario Esquilino»; infine le stesse foto con sovrapposti i disegni e vicino i medesimi epigrammi tradotti ora in italiano. Sembra una tecnica originale per proporre, appunto, un catalogo di suggestive immagini, da leggere in una serata e poi sfogliare nei giorni successivi per riguardare con maggiore attenzione le iconografie di una civiltà scomparsa. Ma le cose non stanno così.

Acque chete è un labirinto, un castello dalle molte entrate, che portano tutte, per cunicoli e corridoi fitti di citazioni, rimandi colti, giochi di specchi, trompe l’oeil, speculazioni ardite, a un centro misterioso che sfida il lettore chiedendogli di districarsi tra le molteplici interpretazioni possibili, ma non alternative tra loro, del suo significato riposto. Il volume si rivela un percorso a ostacoli, ipnotico come tutti i labirinti, beffardo e magnetico come ogni enigma: tanto per dirne una, non ha distribuzione, tanto per dirne un’altra, l’editore è virtuale, tanto per dirne una terza per ottenerlo bisogna chiederlo a artecontemporaneapicena@gmail.comInoltre, gli epigrammi non sono commenti alle foto, semmai il contrario: sono biografie di grandi poeti e pittori riassunte e rarefatte nel tentativo di raccogliere in poche righe l’essenza di una vita, la «piega» (come la definiscono l’inesistente Esquilino e il suo traduttore e alter ego Pincio) che restituisce il senso intimo di quella biografia, o forse di tutte le biografie possibili.

Tra i vari epigrammi il gioco di rinvii è continuo, una biografia si collega all’altra per somiglianza, estensione o opposizione, fino a comporre una galleria di tutte le esistenze possibili, o magari fino a dimostrare che di esistenza possibile ce n’è una sola. I disegni non sono casuali prove d’artista. Si cimentano nel compito arduo di visualizzare secondo uno schema astratto ma non casuale le biografie rarefatte nell’epigramma che accompagnano. Poi, nella seconda galleria fotografica, giustapposti alla istantanea di turno di una fabbrica dismessa, di un capannone in disuso o dei suoi interni, gli autori evocano una dimensione ulteriore e sconosciuta, nella quale l’astrazione fantastica e la precisione asciutta dei dettagli si confondono, il tempo si propone come spazio abitabile e lo spazio come una linea modulata e soggetta a continue modifiche, dunque come tempo, l’evocazione dell’aspetto grottesco e al fondo insensato di ogni vita muta nel tentativo di ridare significato, spessore e dignità a quelle vestigia malinconiche e destituite di ogni senso, le «grotte» del XXI secolo.

Ma il gioco non finisce qui, perché nella «introduzione», Pincio ricorda che la biografia è a sua volta una forma d’arte e per alcuni addirittura la suprema, così i disegni, le foto e poi la loro sovrapposizione sono anche visualizzazioni di romanzi, e l’intero libro può essere visto come quel racconto con protagonista un critico letterario che Pincio (scrittore ma anche critico che nasconde dietro lo pseudonimo Esquilino la sua firma, che è a sua volta uno pseudonimo…) segnala non essere mai stato scritto. La vicenda di un flâneur che ripercorre sempre lo stesso sentiero, lungo gli archi di piazza Vittorio. Forse per scoprire che nessun labirinto è tanto complesso come la retta. O forse che i labirinti non esistono. Però per scoprirlo bisogna prima essercisi persi.