Non tutti, nella moderna Europa, hanno riconosciuto in Odisseo – uomo dell’esperienza, del viaggio – il più amabile fra gli eroi antichi. C’è chi si è lasciato sedurre, al contrario, dall’Iliade e dal suo eroe, Achille. Già Friedrich Hölderlin vedeva in lui il guerriero, certo, eppure un guerriero «so stark und zart», forte e insieme tenero, come si legge in un suo frammento del 1799, Über Achill. Qualche decennio dopo sarà addirittura Elisabetta d’Austria a fare del migliore fra gli Achei una figura di rispecchiamento: lui «vissuto – scriveva l’imperatrice Sissi – solo per i suoi sogni», nella grandezza del suo «dolore». Ad Achille si può guardare dunque nella chiave della forza – l’eroe ancora interamente in natura – e insieme si può però avvertire tutta la sua aura di malinconica consapevolezza, mentre sente il suo destino di morte e la pena per l’irrimediabile perdita del suo compagno, Patroclo. Achille vive nella dimensione del tragico, molto diversamente da Odisseo: quest’ultimo, suggerivano Adorno e Horkheimer, è già un eroe «borghese».
Commuove fino all’anima
Anche il più grande lirico italiano dell’età moderna – Giacomo Leopardi – è soprattutto nel fascino di Achille: l’eroe che – si legge nel suo Zibaldone di pensieri – semplicemente «ci innamora». Lo Zibaldone ospita in effetti parecchi passi a lui dedicati, come quando, nel 1823, Leopardi lo definisce un «uomo sommamente ammirabile» – giocando magari sulla contrapposizione con Ettore –, o ancora si ricorda del momento in cui, davanti a Priamo deciso a riavere il corpo del figlio morto, Achille piange i propri stessi mali, in una scena, scrive Leopardi, che «ci commuove fino all’anima». Ma c’è un altro luogo della scrittura di Giacomo in cui Achille rispunta in maniera meno esplicita, eppure potente: la poesia dei Canti. A inseguire il corpo a corpo di Leopardi con l’eroe di Omero è un libro di Gilberto Lonardi, L’Achille dei «Canti» Leopardi, «L’infinito», il poema del ritorno a casa (Le Lettere «Saggi», pp. 238, € 20,00). E sotto la lente del critico-lettore finiscono momenti altissimi del poetare leopardiano. C’è per esempio il lutto per Patroclo a dare forma ai versi leopardiani, anche grazie alla versione italiana dell’Iliade offerta da Vincenzo Monti, che per l’indagine di Lonardi è un alleato importante (lo era già in un suo libro del 2005 dal titolo esplicito, L’oro di Omero, dedicato al grande incontro fra Leopardi e l’epos arcaico: anche se Leopardi è spesso ben disposto a scendere «da solo» al testo greco). Monti, per esempio, traduceva così le parole di Achille a sua madre nel libro XVIII, dopo la morte dell’amico: «ma di ciò qual dolce / me ne procede, se il diletto amico, / se Patroclo è già spento?». Un lamento che Lonardi ascolta risuonare dietro uno splendido scorcio delle Ricordanze, il canto del ritorno a Recanati: quale uomo può dimenticare la propria sventura, dice Leopardi, «se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?». Oppure si potrebbe ripartire dallo stesso Infinito, perché dietro il giovane che si apparta e, «sedendo e mirando», mette al lavoro la sua immaginazione, Lonardi intravede l’Achille del primo libro dell’Iliade, che si siede e solitario stende lo sguardo sul mare colore del vino: una scena formulare omerica – quella del sedersi e mirare dell’eroe – a sua volta rimodulata da Leopardi anche in altre zone dei suoi Canti, come nella Ginestra: «Sovente in queste rive seggo la notte / veggo dall’alto fiammeggiar le stelle…». Anche nella testamentaria poesia per il fiore del deserto la malinconia leopardiana deve dunque qualcosa allo sguardo di Achille.
Genealogia da Rousseau
Intanto proprio L’infinito ha un posto di riguardo in questo lavoro: mentre ne traccia una sorta di «genealogia» – ricominciando da Rousseau –, Lonardi scorge in questo esercizio di «leggera allucinazione», nella dolcezza del naufragio finale, anche la sublimazione di un impulso suicida, che Leopardi nutriva di un mito come quello del salto di Leucade. Così, con un Infinito riletto anche come luogo di scoperta della contraddizione per via di pulsione, fra morte e eros, tramonta definitivamente ogni lettura risolta e rappacificata degli idilli. E quella definizione – «idillio» – non può allora che suonarci ironica, volutamente sviante. L’uso che Leopardi fa della «forma», spiega Lonardi, è un po’ quello del grande classicismo musicale viennese: «cercarsi contenitori “usati” e ben collaudati, perché poi anche più spicchi la diversità ed energia nuova del proprio messaggio».
Oltre al finissimo dispositivo intertestuale – che l’autore ha magistralmente applicato, altrove, anche ai rapporti fra il libretto d’opera e la poesia di Eugenio Montale – qui conta, al contempo, un altro fatto: conta che Achille sia anzitutto, per Giacomo, «un mito personale e familiare», chiosa Lonardi, che attraversa non soltanto la scrittura, ma anche «l’intimità» di Leopardi. Sappiamo che Giacomo e il fratello, Carlo, amavano immedesimarsi, nei loro giochi infantili, negli eroi dell’Iliade, e sappiamo che la stessa scrittura poetica leopardiana trova il suo inizio – Leopardi ha solo undici anni – con un sonetto a sua volta iliadico, La morte di Ettore. Ma c’è poi un ricordo domestico fornitoci dalle memorie del padre: Giacomo non amava tagliarsi la carne, a tavola, e Monaldo ricorda appunto la sua «avversione all’uso del coltello». Ecco allora Lonardi non solo scrutare con discrezione i meccanismi della psicologia leopardiana – identificando un suo «complesso di Bruto», in una pur trattenuta «simbolica del parricidio» – ma ravvisare anche, in un altro episodio omerico, un’ulteriore occasione di auto-riconoscimento leopardiano. Nel nono libro dell’Iliade è Fenice – sorta di padre «secondo» per Achille – a ricordare l’abitudine di tagliare la carne per il giovanissimo eroe-bambino: quello che Lonardi definisce, ricordandosi di Girard, «piacere mimetico», il piacere di ritrovare qualcosa di se stesso in Achille, è attivo dunque nella scrittura così come in un prima-della-scrittura, nella stessa esistenza di Giacomo.
A fare la bellezza di questo saggio non è soltanto la fittissima rete di agnizioni di lettura, che non coinvolgono, peraltro, il solo epos omerico: il lettore trova qui dentro attenzioni davvero nuove per la storia degli studi leopardiani, da Sofocle – un tragico – a Stesicoro – un lirico –, a dire come i generi siano destinati a bruciarsi nel fuoco della poesia leopardiana. Oppure trova, rivalorizzati in una luce originale, anche percorsi esplicitamente indicati dallo stesso Leopardi, come il suo amore per il Werther di Goethe, che accompagna alcune pagine importanti di questo saggio.
Ciò che soprattutto colpisce è forse la capacità di Gilberto Lonardi di «giocare fra le linee» – come dicono i cronisti sportivi a proposito di certi «trequartisti»: di dialogare con alcuni nomi dell’antichistica, da Rachel Bespaloff a Carlo Diano. O la voglia di leggere l’esperienza leopardiana «in contropelo» rispetto ad altre grandi riscoperte moderne dell’Antico, da Schiller a Kierkegaard (fino a inseguire la fortuna iconografica di Achille, come testimonia il bell’apparato di immagini che chiude il volume, con particolare attenzione agli anni leopardiani). Il che vuol dire – e non è cosa da poco – salvare Leopardi da recinti disciplinari un po’ troppo stretti, o proteggerlo da un certo gusto della dissezione. Lasciandosi guidare dalla sensazione che, in fondo, Giacomo Leopardi stia e insieme non stia a casa sua, in una tradizione come quella italiana. Ascoltandone davvero il «tratto di unicità» e «profezia».