Facile non lo è mai stata, ma per l’accordo con la Turchia con cui l’Unione europea spera di mettere fine agli arrivi dei migranti la strada appare sempre più in salita. «Non ci siamo ancora», ha ammesso ieri Donald Tusk, uno che da mesi spinge perché si arrivi a una conclusione con Ankara. «La proposta turca deve essere ancora riequilibrata per essere accettata dai 28 membri dell’Unione», ha spiegato il presidente del consiglio Ue. Tradotto significa che Ankara ha alzato troppo l’asticella delle sue richieste, sia politiche che economiche, troppo anche per un’Europa che sarebbe disposta a tutto o quasi pur di uscire da un incubo che la paralizza ormai da un anno e che ha stravolto leadership che sembravano consolidate. Troppi ulteriori tre miliardi di euro in aggiunta ai 3 già stanziati da Bruxelles, ma troppo anche la liberalizzazione dei visti e soprattutto l’accelerazione del processo di adesione all’Unione europea. Ostacoli che l’Europa deve «riequilibrare» in fretta, per dirla con le parole di Tusk, se davvero vuole arrivare alla fine di una trattativa che comunque vada rappresenterà una condanna per i migranti.
Come spesso accade si tratta però del classico obiettivo facile a dirsi ma molto complicato da realizzare. A smorzare gli entusiasmi di Tusk ieri ci si è messo anche il presidente di Cipro Nicolas Anastasiades che ha ribadito l’intenzione di «non consentire» alcuna accelerazione che porti la Turchia nell’Unione europea. Nicosia non dimentica l’invasione dell’isola da parte delle truppe turche nel 1974 e la successiva proclamazione di una repubblica riconosciuta solo da Ankara. Cose che Anastasiades ha ricordato a Tusk, presente ieri sull’isola.
Ma il presidente cipriota non è l’unico a frenare. Bruxelles chiede ad Ankara di fermare i migranti che vogliono raggiungere l’Europa e di riprendersi quanti sono già arrivati, a partire dai circa 46 mila già presenti in Grecia. Il che significherebbe dare avvio ad espulsioni in massa che sono vietate dal diritto internazionale oltre a essere lontane anni luce dai principi di accoglienza e assistenza di quanti fuggono dalla guerra ai quali Unione europea dovrebbe ispirarsi. Al punto che anche Tusk ha ammesso che «resta ancora da accertare la legalità» alcune parti dell’intesa.
Il fatto è che il tempo stringe. Ankara si aspetta che il Consiglio europeo che comincia domani a Bruxelles non solo accetti tutte le condizioni poste, ma si sbrighi anche a metterle in atto. I dubbi di diversi stati membri come Spagna, Italia, Francia, Svezia e Lussemburgo, o addirittura una risposta negativa non piacerebbe al regime di Erdogan che per reazione potrebbe spingere i profughi a partire per far pressione sull’Europa. Tusk lo sa bene, e non a caso ieri dopo Cipro si è recato ad Ankara per un incontro con il premier Davutoglu utile a limare ogni possibile ostacolo. «Abbiamo stabilito un lista di questioni che dobbiamo affrontare assieme se vogliamo raggiungere un accordo per venerdì. Duro lavoro di fronte», ha detto.
Quello che è certo è che di duro ci sono soprattutto le condizioni di vita alle quali sono costrette le migliaia di profughi ammassati al confine tra Grecia e Macedonia. Nel campo di Idomeni ieri è arrivato il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos che ha potuto toccare con mano la drammaticità della situazione. Dei circa duemila profughi che lunedì hanno tento di arrivare in Macedonia attraversando un fiume, più di 1.500 sono stati rispediti indietro dai poliziotti di Skopje. E non sempre gentilmente. Testimonianze parlano infatti di migranti, tra i quali tantissimi bambini, impauriti da poliziotti armati e con i cani e costretti in alcuni casi a percorrere a piedi gli otto chilometri che li separavano dal campo di Idomeni.