Tra «lingua ritrovata», «corrispondenze amorose», «scrittura di esperienza» e alcune «riprese», come recitano i titoli dei capitoli di cui si compone l’ultimo libro di Lea Melandri, con Alfabeto d’origine (Neri Pozza, pp. 169, euro 16) siamo in presenza di un testo sorprendente, dipanato con il fascino e la suggestione di una confessione irrimandabile e di un flusso emozionale che proviene dall’inconscio.
La lettura procede come un incontro con un pensiero alimentato dalla «forza invasiva del mondo interno», di cui si cerca in ogni frase la difficile traduzione attraverso scrupolosa cura semantica e acribia stilistica, condensate in parole precise e ricercate, significati acuminati come una lama che hanno la virtù di attraversare, insieme a quello dell’autrice, anche l’inconscio di chi legge.

UN APPUNTAMENTO tra anime favorito da una scrittura felice, da una parola sempre appropriata, da una ricerca che si spinge, ogni volta più audacemente, sotto lo strato delle apparenze verso una profondità melmosa e inconfessabile, a inseguire le tracce dei desideri rimossi, dei bisogni negati, degli impulsi insopprimibili. Non soltanto, dunque, la testimonianza militante di una battaglia femminista contro gli schemi a buon mercato, manifesto di un’opposizione di lunga durata a binarismi di comodo e a semplificazioni oppositive ma prive di dialettica, bensì al contempo un’esplorazione del profondo che intercetta l’inconscio collettivo decifrando quello individuale.

UNA VISIONE del presente, quella di Melandri, condensata e polimorfa, per via della stratificazione di senso che ella attribuisce al tempo vivente, in quanto prospettiva storica ed ermeneutica della complessità che si interpone sempre tra «due tempi, quello dell’origine a quello della storia», con l’obiettivo di lasciarsi alle spalle la mitologia binaria degli abituali schematismi dicotomici, la «falsa dialettica degli opposti», come lei la definisce, per giungere a cogliere la realtà «nell’intrigo delle sue varie e molteplici componenti». Questo volume, a tratti diario, a tratti rapsodia, che attraversa la biografia della sua autrice ma anche quella di una generazione in lotta (a modo suo un’«autobiografia per interposta persona»), è anche un documento politico che addita le facili e banali «polarizzazioni» come la più infausta e insieme persistente semplificazione della complessità del reale che solo un’irriverente prospettiva, come quella azzardata in questi scritti, in grado di intrecciare senso esterno e senso interno, può restituire ad una semantica dell’interezza, ad una grammatica dell’insieme, ad una sferica totalità in cui torni a valere il senso delle relazioni, delle connessioni, di quel che vincola ogni cosa al suo contrario.

ALTRO TEMA RICORRENTE in queste pagine è quello della memoria, luogo dell’impasto tra il racconto di sé e la storia comune, di un vissuto esistenziale e corporeo che si trasferisce ora nei bassifondi dell’inconscio ora nelle vette del pensiero, lasciando ovunque le sue tracce. Segni impressi nei racconti empatici e nelle ricostruzioni appassionate, ma anche nella direzione epistemologica e cognitiva di queste riflessioni/introflessioni, poiché l’archeologia del sapere che indaga anima e corpo fin nelle loro più recondite pieghe qui si fa stile di pensiero e interpretazione del mondo, conosciuto, letto e interpretato nel suo contrasto con «l’altrove». «Come se fossero le opposte sponde di un asse che un improvviso fulmine ha spezzato in due, il maschio e la femmina – il corpo e la mente, la realtà e il sogno, l’infanzia e la storia – giacciono nella lontananza riconoscibili gli uni agli altri solo per la mutilazione subita» e aprono «la strada alla nostalgia di impossibili ricongiungimenti».
Alfabeto d’origine celebra, tuttavia, almeno un’avverabile riconciliazione, una vera e propria ricomposizione di sé che avviene sotto il segno della scrittura, «le parole del silenzio» che costituiscono la trama di un dialogo muto ma serrato tra una lettrice e molti libri da un lato, tra gli autori e le autrici di quei testi e un’interprete a sua volta scrittrice dall’altro, tratteggiano i contorni indefiniti di corrispondenze amorose, baciate da una cura affettuosa e da una dedizione partecipe.

SEMBRA QUASI DI LEGGERLI con lei e attraverso di lei, quei libri. Anche se poi occorrerà lasciarsi alle spalle le forme culturali consolidate per affrontare il mare aperto, per intraprendere cioè quello scavo necessario, «una mineralogia del pensiero» che attraverso la «scrittura di esperienza» renda possibile varcare le «zone di frontiera tra corpo e mente, inconscio e coscienza, sogno e realtà».
E così Lea Melandri ci fa generosamente dono, con questo testo pluriverso, di una pratica, odierna traduzione della liberatoria pratica femminista dell’autocoscienza, che, come Melandri stessa va indefessamente spiegando in giro per l’Italia, può divenire condiviso artificio autoterapeutico per una riscoperta di sé, attraverso la scrittura del profondo, nella relazione con l’alterità dell’altro/a.