Fu l’emblema cinematografico del Fronte Popolare e nello stesso tempo un vertice della filmografia di Jean Renoir, La grande illusione, intermedio cronologico fra un’opera agit prop direttamente commissionata dal Partito comunista, La vie est à nous (’36), e un’altra di respiro epico, La Marseillaise (’38) che si affianca a un ritorno a Zola, L’angelo del male e precede soltanto di un anno il capolavoro per verdetto unanime, La regola del gioco, dove si combinano la sapienza pittorica del figlio di Pierre-Auguste e l’esprit più sbrigliato e febbrile di un genio della cinematografia. Per parte sua La grande illusione è la sintesi di un senso comune democratico e insieme lo specchio dell’umanesimo di Renoir i cui ideali di giustizia e libertà prima che al credo classista rinviano a un senso di appartenenza e a un’idea di Popolo (afflato e comune sentire) che Jules Michelet aveva pensata nei termini del genius loci incarnato dalla Rivoluzione francese del 1789.

Ambientata in uno stalag e poi in una prigione tedesca durante la prima guerra mondiale, la vicenda combina due differenti rapporti: da un lato c’è l’imprevista amicizia fra due ufficiali di origine nobiliare, il detenuto francese De Boeldieu e il carceriere prussiano von Rauffenstein (nella leggendaria silhouette di Erich von Stroheim), dall’altro la rocambolesca evasione e la fuga verso il confine svizzero di due prigionieri, Maréchal galloceltico purissimo (un massiccio e laconico Jean Gabin) e l’ebreo Rosenthal interpretato da un non meno memorabile Marcel Dalio. Nonostante il messaggio cosmopolita e pacifista, il film poco o nulla concede alla retorica del tempo e al suo contenzioso politico, se persino gli arrabbiati dell’estrema destra sono costretti a riconoscerlo: Lucien Rebatet, che firma recensioni sul «Je suis partout» con lo pseudonimo di François Vinneuil, scriverà (in Memorie di un fascista 1941-1947, a cura di Moreno Marchi, Settimo Sigillo 1993) di «essere salito al settimo cielo dall’entusiasmo per il magnifico La grande illusione», mentre il duo fascistissimo e antisemita Robert Brasillach-Maurice Bardèche nella prima ristampa della loro purtroppo insuperata Histoire du cinéma. II Le parlant (’35) rileva come «il notorio energumeno Renoir non dimentica affatto la sua tradizione pittorica, il suo gusto plastico, la sua scienza dei bianchi e dei grigi» esaltando la straordinaria originalità del personaggio-Rosenthal, alla lettera un «Ebreo coraggioso, disponibile, intelligente, ironico che si batte, come dice, per consacrare quei beni che la propria famiglia ha conquistato con l’ingegno».

Ma non è dell’avviso il più illustre e desultorio fra i camerati di Brasillach e Rebatet, vale a dire Louis-Ferdinand Céline, che al film appena uscito riserva alcune tra le pagine più roventi di Bagatelle per un massacro, in libreria alla fine dello stesso 1937. Agli occhi di Céline La grande illusione rappresenta la santificazione del Giudeo dove Rosenthal si arroga la funzione di «Messia ufficiale». Il successo del film è per lui indicativo e favorisce il contagio del morbo giudaico, il quale consiste innanzitutto negli arcani della autopromozione che Bagatelle (qui nella versione di Giancarlo Pontiggia, Guanda 1981) si dà il compito di denunciare: «Forte dei propri successi politici, la propaganda ebrea tira fuori le batterie, diventa categorica, affermativa, aggressiva … si scopre … E ci mostra ora sullo schermo l’Ebreo com’è … non più da bretone, fiammingo, alverniate, basco … ma da ebreo reale, testuale, un Rosenthal… Più moine! …». Ambiguamente attratto dal cinema (dalle cosce muscolose esposte sulle locandine, precisava) ma pure sospettoso del troppo cinema trapassato in narrativa (e qui non escluso il suo Voyage), Céline intuisce che l’universalismo propugnato dal film condanna a morte non solo l’antisemitismo ma ogni genere di differenzialismo: lo scrittore incontrerà Renoir nel gennaio del ’38 sulla Butte, in una bettola sotto il Moulin de la Galette, ma (teste il regista) se ne andrà quasi subito imprecando e sospettando ovviamente Renoir di essere un ebreo in pectore.

Di tale e impossibile rapporto si occupa, a firma di Jean Narboni, La Grande Illusion de Céline (Capricci, pp. 140, € 17,00), libro molto singolare di cui ha dato notizia Eugenio Renzi sul manifesto dello scorso 8 febbraio. Autentica vedette della cinefilia, ex caporedattore dei «Cahiers du cinéma», compagno di via fra gli altri di Truffaut e di Eric Rohmer, saggista raffinato e di stile cristallino, Narboni traccia il diagramma che connette il film allo scrittore muovendo dalla figura etimologica del razzismo céliniano. Che cosa, infatti, assilla, offende e infine esaspera Céline? Non è tanto la presenza di Rosenthal in quanto tale, non è nemmeno il fatto che Renoir l’abbia resa tramite Dalio così affabile, seducente, intrigante: ma è piuttosto l’amicizia, la condizione di promiscuità e di aperta complicità che lega il francesissimo Maréchal al bastardo Rosenthal ovvero a un tipico esempio, e nel qual caso più pericoloso perché avvenente, di sale méthèque o «lurido meticcio» – stando all’ingiuria coniata dal vecchio Maurras. Qui Rosenthal è l’agente patogeno, l’elemento corruttore per antonomasia che propizia il finale del film in senso apertamente internazionalista laddove Céline – sono parole di Narboni – allucina il fatto che «l’alleanza del capitalista ebreo milionario e dell’operaio puramente francese è cosa possibile e augurabile».

Usando da cartina di tornasole le singole sequenze, Narboni ricostruisce la genealogia del razzismo céliniano e specialmente gli apporti d’ordine biologico – o sedicenti – di un George-Alexis Montandon, collegandolo a contrasto e in senso diacronico con alcuni esempi della letteratura e della cinematografia in cui spiccano l’esordio 1968 di Patrick Modiano, con il romanzo sperimentale La place de l’étoile mai tradotto in italiano, e un film di Joseph Losey mai abbastanza valutato quale Mr. Klein (1976). Ma tanto è ossessivo, fanatico e paranoico l’antisemitismo di Céline da indurgli, si direbbe per eterogenesi dei fini, al momento di stroncare il film, un duplice lapsus che ne rivela l’accecamento. In primo luogo, a sostegno della propria tesi, egli addita il «povero ariano», da tutti umiliato e deriso, nel prigioniero traduttore di Pindaro ma non si accorge che si tratta dell’attore Sylvain Itkine (un ebreo di origine lituana poi entrato nella Resistenza e fucilato dalla Gestapo nel ’44); ma soprattutto lo scrittore cade nella trappola o giusto nella maschera del grande von Stroheim, l’algido ufficiale prussiano che in effetti è un ebreo austriaco, figlio di un umile cappellaio. Dunque il razzista, come nell’antico adagio, è capace di vedere la foresta ma non i singoli alberi di cui essa si compone, e infatti nota Narboni come la «foresta della giudaglia che si sforzava di denunciare senza tregua, condensata e quintessenziata nella figura di Rosenthal, gli ha comunque nascosto due alberi non identificabili dall’infallibile rilevatore che pure diceva di essere, come due lettere rubate, disposte sotto i suoi occhi per non essere viste». In fondo La grande illusione aveva raggiunto il suo scopo, l’ideale del vecchio Michelet e cioè includere, unire invece che dividere, parlare alla humanitas degli individui, toccare nel profondo anche i più lontani: Céline in cuor suo lo sapeva ma è ciò che non poteva né voleva ammettere.