L’esperienza degli studi universitari è una tappa importante della crescita individuale. Lasciare la casa di famiglia, la città natale, gli amici d’infanzia, il mondo noto e rassicurante, per guardare con occhi nuovi la vita, le relazioni, la società.

UN’ESPERIENZA prima riservata all’alta borghesia che il conflitto sociale degli anni Settanta aveva reso disponibile a una quota crescente della classe operaia e del ceto medio, anche grazie a importanti riforme della scuola e al contenimento dei costi dei beni di base. Effetti che erano ancora visibili fino a qualche decennio fa.

Il mio caso è simile a quello di molti altri della mia generazione. Da studente di Scienze politiche, tra il 1992 e il 1997, a Torino pagavo 200mila lire per una camera singola in una casa con tre camere, due bagni, una cucina, una grande sala con camino e affaccio su una delle piazze più belle di Torino centro. Con altre 300mila lire al mese facevo il resto: spese di base, cibo, mobilità, libri.

Per il tempo libero, le vacanze, i divertimenti e il resto, lavoravo in modo degnamente retribuito e con orari compatibili con lo studio. I miei sforzi individuali sono stati quindi possibili grazie alla mia condizione di classe, alle risorse della mia famiglia, alla presenza di un mercato del lavoro che offriva buone opportunità e dal basso costo dell’economia fondamentale: casa, trasporti, alimentazione, mobilità. Un quadro molto diverso rispetto a quello odierno.

Lo raccontano i volti e le parole degli studenti che hanno ripreso le occupazioni dello spazio pubblico «in tenda». Spazi fisici che finalmente tornano a essere agiti da corpi in carne e ossa, visibili agli occhi di chi passa; una sfera pubblica scossa da movimenti organizzati e radicali che mettono sul tavolo temi veri, che riguardano la vita quotidiana delle famiglie, le diseguaglianze, l’accesso ai beni e ai servizi di base, l’infrastruttura economia e materiale fondamentale a sostegno dei diritti. Mentre il Paese si divide sulla favola di «Emma e la pesca».

COSA VOGLIONO gli studenti in tenda? Lo raccontano le ragazze e i ragazzi di «Cambiare Rotta», uno dei collettivi che organizza la protesta. Servono l’abolizione della legge 431/98, la reintroduzione dell’equo canone, il divieto di accesso ai privati ai bandi della legge 338/2000, studentati pubblici e accessibili e un reddito studentesco. Milano, anche per il costo fuori scala degli affitti, ha catalizzato l’attenzione dei media, che tendono però a parlarne in modo sensazionalistico senza dare spazio ai problemi sottolineati dai collettivi studenteschi.

In tenda nel capoluogo piemontese contro il caro affitti foto Ansa/Tino Romano
In tenda nel capoluogo piemontese contro il caro affitti foto Ansa/Tino Romano

Gli affitti sono un tema anche nella vicina Torino, dove i costi sono incomparabilmente più bassi. Anche a Torino sono necessari due o tre mesi per la ricerca della casa e una camera singola richiede 4/500 euro. Pochi sono quelli che trovano a 350 euro spese incluse.

Trovare la casa a un costo gestibile è come vincere alla lotteria: molti studenti rinunciano all’Erasmus per non lasciare la casa che hanno trovato con fatica. Il tema nascosto dall’attenzione esclusiva per il caso milanese è che il costo della vivibilità di base o «fondamentale» è proibitivo anche nelle città che non hanno le caratteristiche di Milano.

I collettivi criticano anche i criteri di allocazione delle residenze universitarie pubbliche: a fronte di uno squilibrio strutturale tra posti e persone, occorre selezionare attraverso voti e crediti e chi, per qualsiasi ragione anche non dipendente dalla sua buona volontà, risulta «inadempiente» perde la casa e, spesso, anche la borsa di studio.

CRESCONO in parallelo gli studentati privati, con costi mensili dagli 800 ai mille euro al mese. La questione casa è quindi l’indicatore di una problematica più ampia, che riguarda tutti: la vivibilità fondamentale è a rischio per il combinato disposto di maggiori costi di base e contrazione delle capacità di spesa delle famiglie nella parte media e bassa della stratificazione sociale.

Allora, se è così dispendioso, perché studiare? In Italia la mobilità di carriera è molto influenzata dalla qualità della prima occupazione e dalla coerenza tra questa e il titolo di studio. Per le figlie e i figli del ceto medio che hanno ancora qualche risorsa per accedere all’università, la laurea è la condizione necessaria – anche se non sufficiente – per provare a non scendere lungo la scala della stratificazione sociale.

Al contrario, con questi costi della vivibilità di base e l’erosione delle capacità di spesa, i figli delle classi subalterne non sono neppure in grado di assicurarsi questa condizione necessaria. Per certificare questo stato di fatto e dare definitiva dignità istituzionale alle diseguaglianze di classe, basterà impedire l’accesso alle università a chi ha frequentato un istituto tecnico. L’Ancien Régime bussa rumorosamente alla porta.