La storia è esemplare nel senso che è un chiaro esempio di ciò che non dovrebbe accadere. E che non accadrebbe se “la più bella Costituzione del mondo” non rimanesse inapplicata in molte sue parti. È quella di una cinquantasettenne rom di cui conosco nome cognome telefono e indirizzo, che comunicherò però solo a chi potesse rispondere alla richiesta che presenterò alla fine del racconto. Durante il quale la indicherò solo con le iniziali J.A.

Dunque J.A. viveva insieme a un figlio trentunenne gravemente disabile in un “modulo abitativo” (container attrezzato) del “villaggio della solidarietà”, alias “campo nomadi”, La Barbuta, con ingresso su via di Ciampino 63, a Roma.

Vi si trovava ancora il 23 settembre scorso quando l’Ufficio Speciale Rom Sinti e Caminanti di Roma Capitale ha provveduto alla sua chiusura previo sgombero dei venti nuclei familiari che ancora vi risiedevano. Essi erano ritenuti non meritevoli di tutela perché non avevano sottoscritto il Patto di Solidarietà che prevedeva l’impegno di fittare una casa per il cui costo il Comune avrebbe erogato una somma per i primi due anni. Non lo avevano firmato perché sapevano che non avrebbero potuto mantenere quell’impegno perché, a un rom nessuno a Roma darebbe in fitto un appartamento.

Di quelle 20 famiglie 18 sono state messe per strada senza alcun complimento. A sgombero in corso si è cercato di porre parziale rimedio a questa patente illegalità offrendo ad alcune di esse un alloggio in co-housing a condizioni davvero invivibili, per sovraffollamento (sino a 13 persone in 3 stanze), e per le condizioni degli appartamenti, con masserizie inutilizzabili e in più di un caso senza luce, e/o acqua e/o gas.

Gli altri due nuclei familiari sono rimasti al campo: uno perché aveva un membro con obbligo di dimora e il magistrato di sorveglianza non ha consentito che venisse messo nella impossibilità di osservare l’obbligo impostogli; quello di J.A per le condizioni del figlio disabile.

Alla prima famiglia, dopo qualche giorno è stato assegnato un appartamento in co-housing dal quale per renderlo abitabile bisognerebbe ancora oggi portare via i voluminosi resti di un arredamento totalmente distrutto; per farlo vengono chieste alcune centinaia di euro che non sono nella disponibilità degli assegnatari. I quali pertanto stanno dormendo con i materassi (portati dal campo) messi sul pavimento.

A J.A. e a suo figlio disabile è stato offerta da prima una casa con un solo letto, che ovviamente è stata rifiutata; quindi è stata proposta un’ abitazione di due stanze da letto e un piccolo soggiorno ma con soli 1 divano e 1 sedia, con un bagno senza finestra, la cucina non abitabile e, per di più. senza energia elettrica. Invano il 30 settembre alcuni operatori della Croce Rossa (cui il campo La Barbuta era affidato sino a prima della chiusura) hanno tentato di far ripristinare l’utenza elettrica, non si sa bene per quale insormontabile impedimento.

Una soluzione accettabile si è trovata solo il 28 ottobre, al settimo piano di una grande edificio. Durante oltre un mese J.A. e suo figlio sono rimasti, quali unici abitanti dell’immenso Campo ormai deserto, nel loro modulo abitativo, con luce, ma senza acqua che era stata tagliata a tutto il campo. J.A. se ne è approvvigionata riempiendo bottiglie ad un paio di chilometri di distanza.

Ora, rassegnatasi all’impossibilità di trasferirsi in un alloggio libero al piano terra dello stesso stabile, sta cercando di attrezzare quello assegnatole.

Mi ha telefonato ieri pomeriggio per informarmi di quel che sta facendo. Così mi ha detto che le servirebbero un frigorifero e un lavatrice. È sorta l’idea di lanciare questo appello in modo che se fra chi lo legge ci sarà qualcun@ che potrebbe disfarsi di un frigorifero o di una una lavatrice lo possa segnalare rispondendo a questo messaggio.

Si sa che la speranza , è l’ultima a morire. E dunque lunga vita alla speranza.

Mail di contatto: giovanni302011@gmail.com