In quel laboratorio di linguaggi, ipotesi di lavoro, di «visualizzazione del possibile» che è divenuto soprattutto negli ultimi tre o quattro anni la Settimana Internazionale della Critica – un’eccezionale messa in gioco dei postulati e delle forme di espressione contemporanei; l’interrogazione della natura dei segni, forse anche della loro «snaturazione», cioè del loro continuo farsi natura dentro un’era costantemente posteriore – lo scorso anno, in una Mostra di Venezia che pure rifletteva su una carnalità e una sessualità ibride, paniche (e cioè, in fin dei conti, sulla sostanza stessa dell’immagine, come nel caso di Povere Creature), è apparso un oggetto filmico che mentre racconta aspetti specifici (e salienti) della cultura contemporanea, suggerisce questioni teoriche, cinematografiche, proprio a partire da quel formidabile prodromo che è il corpo. About Last Year diretto da Dunja Lavecchia, Beatrice Surano e Morena Terranova, già vincitore del Premio Valentina Pedicini, approda a Roma, al Cinema Farnese il 23 aprile, all’interno della rassegna «Solo di martedì», occasione per tornare su un documentario importante, tra l’altro in presenza delle registe.

IL FILM segue il percorso di tre ragazze (Celeste, Letizia e Giorgia) nel loro apprendistato alla vita e a se stesse, attraverso l’esperienza delle ballroom, viste come microcosmo di emancipazione identitaria, pragmatica dell’essere affidata all’esposizione coreografica del corpo. Sono quelle sfide tra «casati» di stili e concezioni di ballo diverse (le «house»), nate in ambienti segnati dalla cultura queer e dalle rivendicazioni razziali già negli anni Sessanta, negli USA, e poi col tempo diffusesi anche in Europa e in Italia, intese ora come spazi di edificazione della persona, di ostensione della carne, che ovviamente mantengono un rilievo politico: aprono spazi alternativi di abitabilità a forza di danza, come suggeriva già Maurizio Zanardi nel suo libro Sulla danza (Ed. Cronopio), come se una rotazione ritmica delle braccia, una flessione congruente delle gambe, insomma la codificazione del movimento corporeo, creasse nello spazio delle zone di esorbitazione, delle rapide, autentiche evocazioni d’io. Non più il corpo come oggetto oscuro del desiderio, bensì fulgido, flagrante soggetto del desiderio, che anziché subire lo sguardo, lo suscita, lo istiga a desiderare cioè ad attivare l’immaginazione, nervosa, bramosa, lubrica; a orchestrare nello spazio (immaginario) una rapsodia di spettri, di trasparenze; frizioni ialine o ctonie; l’amplesso degli occhi con le forme, la luce, le grinze strappate ai lembi, i grumi umbratili degli incavi.

È un’istigazione a deliquere (nota bene: da «deliquio», cioè perdita di coscienza, offuscamento della vista) che, più di tutte (perchè dotata di uno straripamento nietzschiano di «poesia» di là dal calco schelettonico del corpo), Letizia Nacci (concorrente nella categoria «sex siren»), discinta, disinibita diavolessa nelle sue falde di seduzione ossessa, trama a ogni passo di danza sul velluto blu della musica elettronica; a ogni sguardo ferrigno, ogni posa opulenta, turgida, esatta nel suo penetrare lo spazio dell’immagine. Lì al centro del film, nella zona più erogena di questa anatomia di immagini, apertosi il drappo rossigno che celava il corpo di Nacci, come il sipario su uno spettacolo che stia per iniziare, accade quell’«offuscamento della vista», il deliquio appunto, il sortilegio cinematografico per cui l’occhio di chi guarda prima seleziona quello che era oggetto del desiderio e ora si rivela soggetto, il corpo, poi annette alle zone salienti, cogenti di questa selezione – i seni tracimanti da trasparenze di porpora, le natiche stipate eppure protruse al di là dell’esile balza di stoffa che le divide, al di là dei balzi, dei sussulti, del divaricarsi occulto del corpo, delle soglie, i «passages de Paris» – gli elementi di contorno del piano: sagome, colori, condizioni di luce che sfiorano la pelle, la vellicano, la divaricano, facendo così l’immagine, facendosi così immagine.

FETICISTICAMENTE, come una fenomenologia del contemporaneo, gli oggetti, gli orpelli «bizantini» del vestiario (penso a un «frammento» di Roland Barthes: «il vestito non è altro che il liscio involucro di quella materia coalescente di cui il mio Immaginario amoroso è fatto»), la pulsazione afrodisiaca e africana della musica, gli sfondi sfocati su cui sfiaccolano umanità in tacchi e latex, lustrini e trucchi, si coagulano nel corpo erogeno posto al centro del quadro: diventano escrescenze, organi di quella carne straripante a cui arriva a essere l’immagine, così penetrata dallo sguardo dentro quell’amplesso mistico e disperato dell’occhio con le cose evanescenti, che è il desiderio.