Aboubakar Soumahoro, appena eletto deputato nell’Alleanza Verdi-Sinistra da indipendente: insieme all’ex operaio Tino Magni si sente parte della classe operaia che torna in parlamento dopo due legislature?
Mi sento orgogliosamente della classe operaia. Un’entità non statica, ma dinamica. La classe operaia oggi è fatta da una moltitudine di realtà: di partite Iva, dei lavoratori delle piattaforme.

Si sente in grado di rappresentarle tutte?
L’obiettivo è quello di mettermi non solo al servizio di questa moltitudine di esperienze, di volti, di sofferenze, di aspettative. Ma farlo con la consapevolezza che tale missione sarà possibile solo mantenendo i piedi nel fango dell’immiserimento e della precarietà di questo mondo. Quindi dentro il parlamento ma allo stesso tempo dentro le dinamiche del mondo reale e le sue contraddizioni.

Per questo già nei primi giorni da parlamentare è stato molto in giro: ha trovato novità rispetto alle sue esperienze precedenti?
Sto girando da tre giorni: da Lecce, dalla provincia di Bari, nel Foggiano e ancora prima a Bologna e nell’Emilia. È quello che ho sempre fatto ma ora cerco anche di rappresentare le condizioni sociali che incontro e i loro bisogni che non sempre, specie negli ultimi anni, hanno trovato rappresentanza dal punto di vista politico.

Quali sono le priorità per rappresentare questa moltitudine?
Il lavoro, innanzi tutto. Per rappresentare questa moltitudine bisogna entrare in sintonia con questa realtà fatta di partite Iva, di piccole e medie imprese. Anche se qualcuno dirà: “Ma cosa c’entrano con la classe operaia?”. Invece proprio questa visione arretrata, ferma, statica non permette di entrare in contatto con la realtà che cambia. Allo stesso tempo rappresentare il lavoro significa rappresentarlo dal punto di vista della sua dimensione legata alle disuguaglianze salariali di genere. In questi giorni ho incontrato persone plurilaureate che percepiscono un salario irrisorio, da fame. Questa “classe operaia” essendo stata dimenticata da un certo modo di interpretare la sinistra si è ritrovata a sua volta rigettata dalla stessa classe operaia che dovrebbe rappresentare.

Lei con Tino Magni comunque rappresenta una minoranza della minoranza. Come pensate di far sentire la vostra voce – obiettivo da lei realizzato riuscendo a bucare anche l’informazione mainstream – e ancor di più di ottenere risultati?
Innanzitutto bisogna distinguere ciò che possiamo considerare “classe operaia” da punto di vista sociologico dalla realtà che è diffusa e plurale che c’è nel nostro paese. Questa seconda non è minoranza. Anzi, è maggioranza che nel corso di questi anni non ha trovato rappresentanza politica. Quindi io non sono minimamente espressione di una minoranza. Detto questo, serve la capacità di non seguire l’onda del nuovismo e avere l’audacia di interpretare le voci, le aspirazioni di questa maggioranza sociologica senza per questo abbracciare la cultura dell’alienazione che tende a rinunciare alle proprie aspirazioni. E allo stesso tempo fare in modo che questa narrazione possa essere condivisa in modo popolare, che non chiamerei mainstream, ma è la capacità di confrontarsi con quelli spazi mediatici che devono diventare luoghi di confronto e di dialettica senza rinunciare o rinchiudersi dentro la cultura del minoritarismo.

Nella sua esperienza personale recente ha usato un esempio storico importantissimo come Di Vittorio. Pensa che possa stare insieme a questa nuove “classe operaia”?
Assolutamente sì. Di Vittorio aveva una radicalità posturale e cioè la capacità di stare nelle dinamiche dei bisogni materiali e immateriali delle persone anche con il tema della pace. Senza rinunciare alla capacità stessa di portare proposte radicali ma allo stesso tempo innovative: se pensiamo al suo Piano per il Lavoro degli anni ’50 lui riuscì ad elaborarlo mettendo assieme tutte la pluralità del mondo dell’intelligenza, della cultura, dell’economia, della politica. Innescando un processo di dibattito: questo porta alla valorizzazione della pluralità ma andando poi a fare una sintesi: funzione per eccellenza della politica. Come facciamo a entrare in sintonia e mettere assieme i bisogni delle piccole imprese alle prese con il caro bollette, l’eco-ansia dei giovani, chi viene discriminato per il colore della pelle? L’unica strada è fare in modo che il tema dell’impoverimento, dell’uguaglianza, della giustizia sociale diventi il tema per eccellenza. Di Vittorio era in grado anche di innescare una narrativa estetica: di domenica, quando i braccianti non andavano a lavorare, chiedeva loro di vestirsi bene per le strade di Cerignola perché non bisogna mai sacrificare l’estetica sull’altare dell’abbrutimento e anche della durezza dello sfruttamento: esaltare le lotte nella bellezza della vita. Guardare le stelle ma con i piedi nel fango della miseria.

In questo suo percorso da sindacalista a parlamentare vede una coerenza? L’obiettivo è di arrivare a una carica istituzionale o di ministro per incidere nella realtà?
Penso che nella vita bisogna poi dare senso alla propria esistenza. E la mia non sta in ciò che è utile o conveniente per la mia persona ma ciò che credo giusto e utile per il benessere collettivo. Questo porta ad un approccio diverso per come deve essere interpretato l’agire politico: bisogna tornare ad abbracciare la parola “noi” come sentire collettivo dove diventiamo tutti e tutte delle persone che portano avanti una missione. Non per retorica, ma concretamente parlando: nelle campagne sono sempre stato. Ora bisogna prestare orecchio. Non parlare di Aboubakar capotreno ma di chi sta nelle carrozze della sofferenza e della precarietà.

Oggi, con la prospettiva del primo governo guidato da una neofascista, il tema del pericolo del ritorno del fascismo viene sentito da queste persone o si tratta di una questione distante dai bisogni della nuova classe operaia?
Oggi qual è lo stato di salute del nostro paese? Il 40% di cittadini non sono andati a votare. Questo elemento pone la necessità di un dibattito vero sulla democrazia rappresentativa perché con questi numeri significa non solo che c’è disaffezione ma un sentimento di rigetto rispetto alla politica che non suscita più sogni, capacità di trasformare le disperazioni in speranze. L’altro elemento riguarda la condizione materiali delle persone e l’attuale contesto rispetto al carovita e la crisi climatica: mentre parliamo di giustizia sociale dobbiamo tenere accanto la prospettiva di società che ci immaginiamo. Papa Francesco descrive il “conflitto propositivo” che deve trovare forme di respiro dentro il mandato del futuro governo senza assolvere chi ha fatto i primi decreti Sicurezza. Le alternative sono due: o questa o il modello Orban con elementi di restrizione delle libertà.

Se dovesse dare una definizione di sinistra calzante per questo contesto quali parole userebbe?
Una sinistra capace di liberarsi dallo spirito de “i ricchi devono piangere”. E abbracciare la prospettiva de “gli ultimi devono sorridere”, intesa come sorriso di diritti, di libertà, di felicità; senza togliere il sorriso a chi ha sempre sorriso. E con questo non garantire il Reddito di cittadinanza da una parte e dell’altra parte normalizzare la deriva di una società razzista. Vogliamo sì i diritti sociali ma non vogliamo per questo portare chi per il fatto di essere descritto diverso si ritrova trasformato nel nemico pubblico di turno. La politica e il modello di società che sogno si basa su quello che Gramsci sosteneva: riabbracciare la parola immaginazione.