In un paese tristemente celebre per la sistematica violazione dei diritti umani, almeno per il diritto all’aborto si intravede finalmente una luce.
Cresce infatti l’attesa per la sentenza della Corte costituzionale colombiana su due ricorsi di incostituzionalità relativi all’articolo del Codice penale che stabilisce una pena tra 16 e 54 mesi di prigione per la donna che decida di interrompere la gravidanza (e per chi l’aiuti a farlo) al di fuori delle tre condizioni previste dalla legislazione dal 2006: in caso di pericolo per la vita della madre, di gravi malformazioni del feto e di violenza sessuale. Benché il ricorso all’obiezione di coscienza di molti medici complichi il ricorso all’aborto anche in questi tre casi.

A PRESENTARE i due ricorsi sono stati, da una parte, lo stesso presidente della Corte, José Lizarazo, su richiesta del movimento femminista Causa Justa e, dall’altra, il magistrato Alberto Rojas Ríos, in risposta a un’istanza dell’avvocato Andrés Mateo Sánchez Molina.
La gravità del quadro è del resto sotto gli occhi di tutti, come evidenzia un dettagliato rapporto sulla «criminalizzazione per il reato di aborto in Colombia» elaborato dalla Mesa por la Vida y la Salud de las Mujeres insieme a ricercatori dell’Università di Los Andes, da cui emerge come, a partire dal 2008, si registrino circa 400 incriminazioni all’anno, il 320% in più che nel 2005.
Una sorte toccata anche a Carla, una studentessa di 15 anni che, nel 2018, rimasta incinta dopo uno stupro, non era stata neppure informata dalla Procura sul suo diritto ad abortire. Alla venticinquesima settimana di gestazione, l’adolescente, assistita dalla Mesa por la Vida y la Salud de las Mujeres, aveva sollecitato, e ottenuto, l’interruzione di gravidanza. Ma, denunciata da un impiegato, era stata accolta all’uscita dalla clinica da membri della polizia giudiziaria e accusata di omicidio. Dopo un lungo e doloroso processo giudiziario il caso è stato finalmente chiuso, ma nessuno risarcirà Carla per il trauma sofferto.

E A TANTE ALTRE DONNE è andata anche peggio: ben 346 quelle condannate dal 2006 al 2019, un quarto delle quali di età compresa tra 14 e 17 anni.
Le più colpite, al solito, sono le più vulnerabili, quelle che vivono nelle aree rurali, pari addirittura al 97% delle donne denunciate tra il 2010 e il 2017. E la possibilità di incriminazione aumenta nel caso di vittime di violenza intrafamiliare, spesso accompagnata da lesioni personali. Secondo il rapporto, almeno il 42% delle donne incriminate per aver abortito sono state vittime di violenza di genere.
«Il sistema colombiano, nello stesso momento in cui condanna le donne che decidono di interrompere la gravidanza, risparmia gli uomini che esercitano violenza contro di esse», ha denunciato la cofondatrice della Mesa por la Vida Ana Cristina González Vélez.

E IN QUESTO QUADRO i medici sono tra i maggiori responsabili, o rifiutandosi di praticare l’aborto, o allungando il più possibile i tempi o addirittura denunciando alle autorità le donne che si rivolgono a loro in cerca di aiuto, per esempio a causa di complicazioni legate ad aborti clandestini. Senza minimamente preoccuparsi non solo di violare il segreto professionale, ma neppure di estorcere confessioni alle pazienti in momenti di fragilità estrema.
Ci si è messa poi anche la pandemia, con la relativa crisi dei servizi medici, ad aggravare ulteriormente la situazione: se, durante il 2020, sono aumentati del 50% i casi di mortalità materna, ciò è dovuto anche al maggiore ricorso a procedimenti rischiosi a fronte di tutti gli ostacoli posti all’accesso a un aborto sicuro.