La casa editrice Einaudi ha dato alle stampe un volume di Marco Biraghi intitolato L’architetto come intellettuale (pp. 210, euro 21). Questione antica certo, ma di grande interesse, nella misura in cui essa interpreta invero un problema più generale e altrimenti decisivo, il rapporto tra architettura e politica. Biraghi è convinto che si possa riaprire una dialettica critica tra questi due livelli, e che, insomma, nulla obblighi l’architettura a ridursi a mero «comparto operativo del capitale».

LA TESI DI FONDO del libro è coraggiosa: l’architettura non è mai stata semplicemente tecnica, ma ha sempre proposto una autoriflessione critica sui ruoli, le funzioni, gli strumenti, e l’organizzazione che regolano le pratiche di trasformazione dell’ambiente umano, alle sue diverse scale. Il saggio allora disegna una mappa teorico-critica dell’architettura contemporanea. Vengono analizzate le derive urbane situazioniste e Benjamin Constant, i progetti «impossibili» di John Hejduk e del primo Eisenman, l’architettura partecipata di Giancarlo De Carlo e di Alejandro Aravena e poi, ancora, la riconfigurazione dei processi di produzione edilizia tentata da John Habraken, e la complessa ricerca teorica di Pier Vittorio Aureli.

È proprio il confronto con Aureli a costituire il punto di svolta del testo: l’analisi è poco convincente quando ci si sofferma sul «distacco» dalla realtà, sul progetto indipendente dal suo «tradursi in pratica» – una strategia, quella dello studio Dogma, funzionale alla riproposizione di una «architettura assoluta» e che si perde, come l’autonomia del politico qui richiamata, nella metafisica allusione ad un «potere che frena» del tutto ineffettuale. Del resto Biraghi stesso non smette di sottolineare quanto sia «soprattutto sotto il profilo formale e figurativo che l’architettura mostra la sua integrale assimilazione a una merce». Ma il discorso diventa cogente quando si apre alla riflessione sul rapporto tra architettura e operaismo italiano. Un tema che Aureli ha riproposto in diverse occasioni. Insomma: è dalla domanda irrisolta di Tafuri che si deve ripartire per riformulare i termini del rapporto tra architettura e politica.

«Il vero problema è – scrive Biraghi – quale posizione occupino gli architetti nei processi produttivi attivi (…): in quale misura gli architetti riescano ad operare una trasformazione dell’apparato produttivo e quanto invece compiano nei confronti di questo un semplice rifornimento». Il tema viene svolto articolando sapientemente il Walter Benjamin de L’autore come produttore, con una rilettura delle pagine di Hannah Arendt sul lavoro creativo.

L’architettura contemporanea è sussunta nel modo di produzione capitalista. Tuttavia resta pur sempre vero che il progetto – come processo di generazione degli oggetti architettonici – «è anche un prodotto», ma non esclusivamente: dacché esso, sempre «eccede e si apre a possibilità ulteriori, non previste, che mettono in crisi il processo produttivo medesimo».
Biraghi formula allora una fondamentale proposta di metodo: lasciamoci alle spalle «l’architettura delle buone intenzioni» e iniziamo a ragionare sulle «condizioni di sfruttamento selvaggio dei lavoratori», proviamo ad «istituire reti di comunicazione e scambio tra i soggetti coinvolti».

CIÒ SIGNIFICA analizzare l’architettura come settore concreto del lavoro cognitivo, produrre inchiesta sul precariato, sull’organizzazione degli studi, sulle funzioni professionali, sulle gerarchie interne e sui modelli di governance che ne regolano la vita – un compito questo, peraltro, meritoriamente individuato qualche anno fa dalla rivista Gizmo della quale Biraghi stesso fa parte. Solo in questo lungo lavoro di inchiesta è possibile cercare «segnali di risveglio nei confronti di una lettura politica della disciplina».

Tuttavia qui il riferimento al Tafuri di Contropiano esita: per proseguire, dice Biraghi, «è necessario affrontare una questione essenziale: ha ancora senso questo discorso al di fuori della prospettiva della lotta di classe?». Poi si blocca, laddove viene data per scontata, nientemeno che la «mancanza di un’alternativa politica al capitalismo». Allora si perde nei riferimenti consueti all’autosfruttamento del capitale umano, o quando cambia centro: «più ancora che il lavoro – dice Biraghi – lo scontro tra classi o l’organizzazione spaziale delle città, la vera frontiera critica odierna è diventata la libertà dell’individuo, sottoposto alla costante attenzione della rete e di tutti gli altri invisibili sistemi di sorveglianza che ne monitorano i desideri» – come se la lotta di classe non fosse essa stessa questione di libertà. Dentro questi limiti, tuttavia, il volume ha l’ambizione, e il merito indubbio, di riaprire una domanda radicale sull’architettura. Un invito che va certo raccolto, approfondito e discusso.