Ci si perde e non si finisce mai di stupirsi andando a riscoprire la messe ricca e feconda che caratterizza la simbologia intorno agli alberi di Natale. Ben prima che il cristianesimo si affermasse in tutto il mondo le piante sempreverdi sono state simbolo di rinascita e di rinnovamento. Dall’antico Egitto alla Grecia e nell’Europa settentrionale, una pianta sempreverde rappresenta la speranza del risorgere della vegetazione e della via stessa minacciata dalle nevi e dal buio invernale. Tutto ciò ci è pervenuto attraversando i millenni ed assorbendo culti diversi in un sincretismo che mantiene la sua essenza d’incenso e di permanenza feconda. Se i tedeschi hanno saputo, nel 1800, trovare le parole per la loro O Tannenbaum, canzone per eccellenza natalizia che magnifica le verdi fronde, meno conosciuta ma forse più antica è La leggenda del lupino, riscoperta dagli studi di Roberto De Simone e riproposta dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, narra della fuga in Egitto. Maria e Giuseppe scappavano in preda al terrore, inseguiti dal bando di Erode. Maria chiede aiuto alle piante che incontra, ma il lupino ritrae le sue fronde: sarà maledetto e resterà, per questo, ancora più amaro. Il frutto del «pignuolo», un pino, al contrario, apre le sue fronde ai fuggitivi e li sottrae alla caccia feroce. La manina del Bambino carezza le fronde che, da allora, sempre sapranno d’incenso e all’interno del frutto, il pinolo, se lo si apre, si scorge ancora adesso come una manina, quella divina.
Solo dalla metà dell’Ottocento l’usanza degli alberi di Natale si estese dai paesi anglosassoni fino a quelli mediterranei, affermandosi come uno dei simboli stessi del Natale. E oggi non c’è comune italiano che non ne situi uno nella piazza principale. Il famoso Spelacchio di Roma, e tutti gli altri abeti, troneggiano addobbati dappertutto. In Germania appositi vivai da sempre coltivano abeti destinati a quest’uso.

Nulla volendo togliere all’aspetto simbolico di questa magnifica pianta, nulla sottraendo alla ritualità antichissima – nell’alfabeto runico degli alberi, l’abete, Ailm rappresenta la prima lettera – ci si dovrebbe chiedere se sia proprio questa la pianta giusta. Moltissimi abeti bianchi o rossi, dopo le festività, sono stati messi a dimora ed hanno attecchito, cosa buona in sé, ma non sarebbe meglio, dato il cambiamento climatico in corso, ricorrere ad altre essenze ugualmente ricche di significato? L’alloro, gli agrumi, molti ignorano che nel nord Italia si usava addobbare gli alberi di Natale proprio con le arance, una volta rare da trovare e costose. Non si potrebbero adottare degli aranci, i quali una volta messi a dimora, facilmente resisterebbero e potrebbero ricostruire un paesaggio anche urbano? Non è una provocazione, è un’idea, se è vero che il clima sta cambiando dobbiamo cambiare anche laddove è più forte e pieno di contenuti simbolici il nostro rapporto con le piante. Per non addentrarci nel tema della colonizzazione delle tradizioni nordeuropee ai danni di quelle meridionali, limitiamoci a dire che un abete messo a dimora alla stregua di Spelacchio perde i suoi aghi per le temperature elevate e ha poche chance di sopravvivere. Allora, per tante ragioni, meglio un arancio, meglio un alloro.