C’è un uomo, un militare, che vaga in una città deserta e notturna, i cui contorni sono vaghi, l’oscurità profonda, quasi impastata nella grana delle immagini. Chi è questa persona, cosa cerca, da quali nemici fugge, che fantasmi lo tormentano? Il luogo, lo riconosciamo dal fasto dei monumenti è Roma, l’uomo è Ethan Hawke, la storia quella del nuovo film di Abel Ferrara, Zeros and Ones, che è una spy story interiore e insieme un ritorno sulle tracce disseminate nella sua opera, il potere, la solitudine, la religione cattolica come forma di controllo e di stordimento. O più semplicemente una magnifica e toccante dichiarazione d’amore alla città in cui vive ormai da diversi anni, e alla zona in cui abita, piazza Vittorio e dintorni, che è anche la geografia in cui si muove il film.

Aperto e chiuso da due «intermezzi» affidati al suo protagonista, Hawke appunto, che si rivolge al pubblico prima dicendo cosa lo aveva conquistato nella proposta di Ferrara, e un po’ seminando qualche «anticipazione» su ciò che vedremo, e poi quasi in forma di saluto, con una riflessione su ciò che abbiamo visto con l’avvertenza finale però che «anche questo fa parte del film». Smascheramento e messinscena. Ma al di là della sua trama sospesa, di una suspence con inseguimento di spie e nemici senza volto, Zeros and Ones – presentato nel concorso internazionale – è soprattutto una scommessa del cinema col nostro tempo a partire da un interrogativo: come restituire il sentimento di un vissuto contemporaneo, di una realtà divenuta all’improvviso «finzione»?

Il gesto cinematografico di Ferrara si misura con l’inatteso di un’esperienza come quella di precipitare in un lockdown mondiale in cui tutto, ogni banale dettaglio o luogo del quotidiano è divenuto eccezionali. E in questo che è pienamente un «covid-movie» ma non nel senso delle enfatiche ripetizioni di cori/terrazze/interni famigliari/vie vuote che hanno riempito nei mesi passati i serbatoi delle immagini, utilizza la situazione per renderla cinema, per abitarla con storie e trame dell’immaginario: guerra fredda, apocalissi, il potere e le sue forme, l’iconografia religiosa sontuosa del cristianesimo nella capitale al tripudio della sua potenza, accanto alla quale affiora la preghiera musulmana, senza rappresentazione.

È LA REALTÀ che abbiamo vissuto quella che attraversa il protagonista, sono le abitudini che abbiamo appreso, disinfettarsi le mani, mettersi la mascherina, stare lontani, ripetere: «Siamo tutti negativi» come un mantra della serenità trasportati in qualcos’altro, nello spazio narrativo di un possibile che prova a reinventarne il segno. Reali il buio, i portici deserti tranne qualche senza tetto, il silenzio, il vuoto; lo spaesamento costante di quando ogni cosa può accadere, e al tempo stesso trama di un futuro senza connotazione. È tra queste «vertigini» che appare il soldato americano (Hawke), un superiore lo manda a filmare la basilica di San Pietro: perché? Qualcuno prepara un attentato per distruggerla, l’uomo ha un fratello gemello che è stato arrestato, la compagna di questi col figlio lo accusa di non volersene occupare. Di lui dicono che è un anarchico o un comunista: «è un rivoluzionario» afferma il fratello/gemello.

Nel gioco di specchi appaiono due ragazze russe, lo catturano, lo obbligano a fare sesso con una di loro: si conoscevano già? O sono solo altri fantasmi? La linea tra vivi e morti si assottiglia affidata solo a un apparecchietto che registra qualcosa, forse il calore del corpo. Intorno gli schermi sono accesi costantemente, rimbalzano altri volti da luoghi ignoti, la morte del gemello il soldato la vede su un tablet: sarà poi stato ucciso davvero? O era ancora un’altra bugia?

«Gesù era solo un altro soldato» sussurra il protagonista. Una donna lo avverte in chiesa che lo tradiranno e che nessuno lo riconoscerà più. La sua informatrice asiatica è stata uccisa.

E QUESTO SOGNO nero, di luci oniriche che trasformano il mondo – con la splendida complicità della fotografia di Sean Price Williams («Lui ha influenzato il nostro lavoro e noi il suo – ne sono certo» ha dichiarato Ferrara al quotidiano del festival) prima che per «una storia» si fa terreno di un corpo a corpo tra le possibilità del narrare e l’esperienza, la realtà che sorprende e lo spazio della sua invenzione, quel bordo su cui si muove un cinema libero – come quello di Ferrara – che continua a sperimentare piste, che lascia aperti orizzonti, che abita il mondo in modo politico senza assecondarlo. E che si fa sorprendere dall’emozione rifiutando gli schermi pre-ordinati.

Forse anche per questo riesce a cogliere con precisione il sentimento del tempo: non è la sua una costruzione «mimetica» che chiede cioè a chi guarda di identificarsi – anche se ci si può riconoscere in ciò che abbiamo provato questi mesi, anni – ma lavora in profondità, da forma ai cataclismi interiori, a una condizione universale che interpreta quella della realtà.

Infine la luce può tornare, come se questo buio finalmente trovasse una pace, epifania di un corpo a corpo che si allena nel vissuto e lo trasforma. Che rende il cinema una continua trasformazione.