Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha dichiarato in un discorso al parlamento giapponese del 20 gennaio scorso, che l’alleanza con gli Stati Uniti è “il cardine della politica di sicurezza del Giappone” e che questo è un principio immutabile. Lo stesso Abe ha dato ampio risalto a ciò nel messaggio di congratulazioni del 21 gennaio per l’insediamento di Donald Trump alla Casa bianca ed è riuscito ad assicurarsi la visita di stato in corso.

Gli obiettivi della politica estera giapponese espressi nelle scorse settimane, e ripetuti nel corso dell’incontro di venerdì a Washigton, sono essenzialmente due: confermare la saldezza del legame militare tra le due nazioni, apparentemente messo in dubbio in campagna elettorale da Trump; e il mantenimento dell’iniziativa sul fronte economico-commerciale dopo il ritiro del nuovo Presidente americano dal trattato di libero scambio transpacifico (TPP) fortemente voluto da Abe.

La stampa giapponese si è chiesta che prezzo Abe sia disposto a pagare per questa politica. L’immagine che è stata evocata è quella di una “diplomazia del dono”, in riferimento a quel periodo storico in cui i regnanti dell’estremo oriente mandavano all’imperatore della Cina sontuosi regali. Più di qualcuno in Giappone teme che le promesse di Abe ammontino infondo proprio a questo.

Sul fronte della difesa Abe porta a casa il risultato della rassicurazione circa l’estensione della garanzia militare americana alle isole Senkaku, rivendicate dalla Cina. Ciò era già stato preannunciato in una telefonata del Segretario di Stato Tillerson questa settimana e nella visita del Segretario alla difesa Mattis la settimana scorsa. I lavori per la costruzione di una nuova base americana a Okinawa sono iniziati, dopo anni di stasi, proprio dopo che Mattis ha lasciato il Giappone. Significativo è che Trump abbia parlato di “investimento massiccio” nell’alleanza e che Abe abbia da poco fatto approvare un aumento del budget per la difesa.

Sul fronte economico la delegazione di Abe è stata costretta ad un cambiamento di registro. Al posto dell’approccio multilaterale alla base del TPP, preferito dal Giappone, le dichiarazioni ufficiali parlano di instaurare un dialogo bilaterale, come preferito dall’amministrazione Trump. Il dialogo è stato affidato agli incontri paralleli tra il Ministro delle finanze Taro Aso e il suo omologo americano Pence. Sulla stampa giapponese sono circolate le offerte che potrebbero essere messe sul tavolo: investimenti negli USA in infrastrutture, soprattutto ferroviarie, e in robotica e high-tech, oltre a maggiori importazioni di gas dagli USA.

Le affermazioni della vigilia di Trump sulla politica commerciale giapponese sono suonate in Giappone come un ritorno agli anni ottanta: valore manipolato al ribasso dello yen e eccessive esportazioni di automobili. Il Giappone, però, non è più quel gigante insidioso che impaurisce l’America come raccontato da Crichton in Sol Levante. Ora gioca sulla difensiva e il ruolo di esportatore globale è stato assunto dalla Cina.

Proprio le dichiarazioni congiunte sembrano rivolgersi a questa. Oltre ai riferimenti di Trump alla questione della libertà di navigazione nel Mar cinese meridionale e alla Corea del Nord, Abe ha spiegato cosa i due intendano per “fair trade”: escludere che “imprese di stato e con capitale statale” possano intervenire nell’economia, insieme a una forte protezione della proprietà intellettuale.

Abe e Trump hanno anche giocato a golf, per cementare l’amicizia. Per il Giappone di Abe gli Stati Uniti sono la difesa necessaria da un vicinato militarmente e commercialmente sempre più scomodo.