«Abbiamo rotto la terra e ora cadiamo nel tempo. L’archivio del nostro fallimento…». La parole che accompagnano la sequenza finale di Bethesda_defrag di François Knoetze, uno dei tanti lavori video che richiedono tempo e attenzione lungo il percorso della mostra Rethinking Nature (Museo Madre Napoli, fino al 30 maggio ) sono molto di più della conclusione dolente di un racconto distopico e disturbante. «L’archivio del nostro fallimento» potrebbe essere infatti il sottotitolo dell’intero progetto espositivo, che proprio dell’archivio, parola in cui secondo Derrida convivono il principio e il comando, ha tutta la densità, la capacità di generare nuovi pensieri e visioni, prospettive e sguardi in grado di rimettere in discussione il passato e, soprattutto, di intervenire sul presente.

Quello firmato da Katherine Weir, dal gennaio 2020 direttrice artistica del museo napoletano, insieme alla curatrice Ilaria Conti, da alcuni anni impegnata in progetti espositivi su tematiche postcoloniali e di critica istituzionale, è un percorso fatto di tante opere (oltre cinquanta, con quindici produzioni commissionate per l’occasione) e, insieme, un tessuto di molte e diverse parole, un racconto che si sviluppa esigente e a tratti severo negli spazi di Palazzo Donnaregina, un museo che conserva il ritmo cadenzato dell’enfilade, delle stanze che si susseguono in misurata successione.

Al visitatore, subito allarmato da Pillar (2021) dei filippini Alfredo e Isabel Aqulizann, una delle opere nate per la mostra, una specie di merzbau collettivo che si sviluppa in altezza raggiungendo con i suoi modelli di casa in cartone il terzo piano del museo, Rethinking Nature si propone come un impegnativo viaggio, talvolta oscuro, comunque mai accomodante, tra le macerie, innanzitutto umane, prodotte dall’ottuso consumo della natura, da quella sistematica azione di rapina in cui si manifesta, così si legge nel testo che apre l’esposizione, «il paradigma europeo moderno che concepisce la natura come un serbatoio di risorse da sfruttare liberamente per il profitto».

Senza reticenze, la mostra si presenta, quindi, come un progetto di «ecologia politica» che nell’arte contemporanea riconosce innanzitutto uno strumento critico, un luogo efficace di interrogazione etica e di riconnessione di ciò che è stato disgregato dalle logiche predatorie di un potere che, pur cambiando di nome e di matrice, non ha smesso nel nuovo secolo di essere coloniale.

La questione green che in questi convulsi tempi di PNRR occupa insistentemente i discorsi e le programmazioni scientifiche ed economiche, trova in Rethinking nature forme ed espressioni che vanno molto al di là della pur necessaria denuncia della riduzione della biodiversità o dell’inventario dei danni connessi al cambiamento climatico: il lavoro degli oltre quaranta tra artisti e collettivi selezionati, provenienti spesso da paesi marginali rispetto alle rotte consuete dell’arte e del suo globale mercato, è infatti orientato a una riflessione sulla natura di carattere opportunamente eccedente, capace di tenere insieme discipline e metodi diversi, legando microstoria e epica, autobiografia e mito.

Anche quando restituiscono in immagini i risultati di un’inchiesta, le opere in mostra non rinunciano quasi mai a proporre e sollecitare visioni, sogni, magari incubi: esemplare, in questo senso, il lavoro del gruppo indigeno australiano Karrabing Film Collective che, se da un canto con l’opera Wheather Reports svela attraverso l’uso di cartografie storiche e di dati relativi alle trasformazioni geopolitiche come «la visione coloniale riesca al contempo a perfezionare la propria cartografia e distruggere mondi», d’altro canto con la doppia, lacerante proiezione di Mermaids, Mirror Worlds mette a reagire l’insensata logica dello sfruttamento delle multinazionali, tradotta nei format eleganti e «neutrali» dei canali all-news, con le immagini desolate di una natura ormai impraticabile di cui ancora si tenta di rintracciare il senso attraverso parole e segni di un sapere arcaico, alla ricerca di una relazione con le piante, gli animali, la terra fatta di poesia e di immateriali confini da scambiare.

Il racconto delle catastrofi e degli innaturali disastri che definiscono lo scenario minaccioso dell’Antropocene, «parola amata e odiata», era geologica e insieme profezia di cui l’antropologo Matteo Meschiari ha di recente disegnato le geografie del collasso, si lega spesso a una dimensione intima, a gesti e destini individuali, in un gioco continuo fra cronaca e fiction che si manifesta anche nel frequente utilizzo del found footage, di materiali filmati «trovati» e rimontati, riciclati in una pratica di linguaggio che è debitrice tanto della lezione dell’avanguardia quanto della logica combinatoria orizzontale della rete, le cui autentiche ragioni stanno però fuori dal dispositivo, nell’incontro sempre richiesto con il visitatore, a cui non è consentita pigrizia o distrazione.

Un’esigenza di condivisione e non di contemplazione che si riconosce anche nei progetti presentati dagli artisti italiani, nei carotaggi selezionati da Giorgio Andreoatta Calò dall’archivio della Carbosulcis S.p.A., ultima società attiva in Italia nell’estrazione del carbone, ora rigenerati in opera d’arte e reperto; nei collage raffinati e solo in apparenza sorridenti realizzati da Marta Migliora con immagini del passato, iconografie più o meno esplicitamente coloniali del cacao, dello zucchero e del caffè; nella rovesciata stratigrafia della contaminazione costruita da Ivano Troisi, Cova, che è un monumento in carta e pietra alle estrazioni di idrocarburi in Val D’Agri; nel progetto Getting Compromised / Guaiana Toscana, con cui Niccolò Morato esplora i legami tra il sistema finanziario e l’appropriazione delle risorse naturali attraverso la lente della fallita spedizione coloniale di Ferdinando I de’ Medici o, infine, nella potente inchiesta sulle nuove e spregiudicate rotte commerciali favorite dal cambiamento climatico proposta da Elena Mazzi nel video The Upcoming Polar Silk Road.

Un posto a sé occupa, anche dal punto di vista dell’esposizione, il progetto Agricola Cornelia S.p.A. di Gianfranco Baruchello, iniziato negli anni settanta nella campagna romana come esperimento artistico sull’agricoltura e la giustizia sociale, un progetto che di Rethinking Nature rappresenta una involontaria premessa. Un modello, anche, in quanto il lavoro condotto con forza visionaria da Baruchello nei terreni abbandonati ai margini della capitale continua a ricordarci che ripensare il rapporto dell’uomo con la natura significa sempre immaginare anche nuove, più giuste, relazioni tra gli umani.