Caccia agli archivi del “Datagate”. Nel mirino i giornalisti che custodiscono i segreti dell’ex consulente Cia Edward Snowden, la talpa che ha rivelato il grande scandalo delle intercettazioni illegali messo in atto dagli Usa attraverso l’Agenzia nazionale per la sicurezza (Nsa). Alan Rusbridger, direttore del britannico “Guardian”, il quotidiano che ha fatto scoppiare il caso insieme al “Wasghington Post”, ha denunciato le pressioni dei servizi segreti e del governo per farsi consegnare le informazioni sul Datagate: «Siamo stati obbligati a distruggere gli archivi con le prove», ha scritto in un lungo editoriale, pur ribadendo che il suo giornale non intende recedere.
Snowden, che lavorava come contrattista per la Nsa ha mostrato l’ampiezza del cyberspionaggio dalla Cina all’Europa, all’America latina. Ha rivelato l’esistenza di sofisticati sistemi di sorveglianza come il programma “Xkeyscore”, che consente all’intelligence di sapere «quasi tutto quel che una persona fa in internet», o come il “Prism”, mediante il quale la Nsa aveva accesso ai dati degli utenti Facebook, Google, Microsoft, Yahoo… Ha anche chiamato in causa l’intelligence del Regno unito- la divisione Gchq – che si è servita del sistema Prism.
Rusbridger ricostruisce due mesi di straordinarie pressioni su di lui e sul suo giornale da parte del governo britannico: «Avete avuto il vostro dibattito», gli avrebbero detto funzionari dei servizi segreti, «ora basta. Distruggete tutto il materiale». Una richiesta che il giornale avrebbe accolto. In «uno dei momenti più bizzarri» nella storia del giornale, racconta il direttore, i funzionari avrebbero assistito alla distruzione fisica «di un macbook pro», nonostante il direttore avesse fatto presente che avrebbero continuato a scrivere dall’estero. «Lo stato che sta costruendo uno straordinario sistema di spionaggio farà del suo meglio per impedire ai giornalisti di parlarne», conclude, «e potrebbe non mancare molto al momento in cui sarà impossibile per i giornalisti avere fonti confidenziali».
Agli inizi di agosto, Glenn Greenwald, il giornalista che ha reso pubblico il caso, ha dichiarato che Snowden gli aveva consegnato circa 20.000 documenti «esplosivi», custoditi in luoghi diversi e segreti. Le prove, quindi, non sarebbero andate distrutte. Molti file sarebbero ancora in possesso della documentarista Laura Poitras, amica di Greenwald e a sua volta spiata dai programmi di vigilanza illegali: «Dopo qualche iniziale reticenza, mi sono reso conto che noi tre eravamo una forza», ha detto Snowden in una intervista al “New York Times” durante la quale ha lamentato la dismissione dei media Usa dal loro ruolo di contrappeso del potere dopo l’11 settembre. «Non denunciano gli abusi di potere per paura di essere considerati antipatriottici», ha detto ancora Snowden. Per lo stesso motivo, l’ex soldato Bradley Manning, sotto processo per aver rivelato il “Cablogate”, non aveva trovato ascolto presso i grandi media e alla fine si era rivolto al sito Wikileaks.
Snowden, imbottigliato al terminal dell’aeroporto moscovita di Sheremetievo dal 23 giugno, ai primi di agosto ha ottenuto asilo temporaneo dalla Russia. In cambio, ha accettato di mettere il silenzio alle sue rivelazioni, che hanno portato all’annullamento del previsto vertice bilaterale tra Putin e Obama in occasione del G20 a settembre. I giornalisti a cui ha consegnato le informazioni hanno però dichiarato che continueranno a pubblicarle.
Dopo il fermo di suo marito David Miranda – trattenuto per 9 ore all’aeroporto londinese di Heathrow mentre era in viaggio verso Rio de Janeiro, dove entrambi risiedono – Greenwald ha affermato che sarà «ancora più aggressivo» nel proseguire il suo lavoro.
Anche Julian Assange, il cofondatore del sito Wikileaks, ha annunciato a breve la pubblicazione di altri documenti segreti forniti da Snowden. Il ruolo di Assange – bloccato da oltre un anno nell’ambasciata ecuadoregna a Londra perché se esce rischia di essere estradato in Svezia e da lì probabilmente negli Usa – non è però gradito da un’altra nota firma del giornalismo statunitense, Michael Grunwald, della rivista “Time”. In un messaggio Twitter, il giornalista ha scritto che se un drone eliminasse il cofondatore di Wikileaks non gli dispiacerebbe affatto. A seguito delle proteste suscitate, Grunwald ha cancellato il messaggio, riconoscendo di aver scritto una cosa «stupida». I suoi umori – condivisi da una buona parte dell’opinione pubblica nordamericana – giustificano però le paure dell’attivista australiano, che teme di essere portato con la forza negli Usa per subire una sorte ancora peggiore di quella riservata a Bradley Manning.