Se ne accorsero i poeti latini di età augustea, quando scelsero di cantare il paesaggio urbano di Roma, ingegnandosi a ricalcare le orme di un grande predecessore greco: tra il Foro, il Palatino, l’area del Circo Massimo e il Campidoglio, la città era affollata di «luoghi della memoria» legati al passato anche remoto. Grotte, tombe, alberi, altari, segni: l’Ottavo dell’Eneide o alcune poesie di Properzio spiegano la suggestione che al tempo quegli spazi suscitavano in chi li percorreva. Quella «memoria culturale» non appartiene più ai moderni, giacché i miti delle origini non costituiscono oggi «figure del ricordo»: il tempo (e lo storicismo) hanno creato una distanza molto grande. Di quel passato, che pure è detto rilevante per il nostro presente, restano pietre, riscoperte dall’archeologia, e testi, studiati dalla filologia. Scegliere le une oppure gli altri come guida per ricostruire una verità monolitica sul passato di Roma non è idea felice: le pagine di storici e poeti non sono (solo) documenti, né lo sono le rovine e nemmeno i cocci. Di qui una lunga contesa.

«Da quando è nata l’archeologia moderna, il sito di Roma è stato battuto, perlustrato, scavato nei luoghi ritenuti nevralgici, alla ricerca della prova che confermasse il dato della tradizione o che fosse in grado si smentirlo definitivamente». Altra è la strada seguita da Gianluca De Sanctis in Roma prima di Roma Miti e fondazioni della Città eterna (Salerno Editrice, pp. 248, € 20,00). Considerati i dibattiti tra storici e archeologi sulla preistoria di Roma, si tenta un racconto che parta dagli «oscuri bagliori» che emanano dalle tradizioni antiche. Le leggende non sono rigettate in blocco né accolte acriticamente, ma discusse, quando possibile, e raccontate con rispetto sempre. Quel che gli antichi sapevano e credevano di sapere sul proprio passato costituisce una «autorappresentazione»: ne va compreso il senso, non misurata la verità. I racconti delle origini romane erano molti, come sempre accade ai miti: da quella varietà emerse, per selezione, un racconto «principale»; ma le tradizioni rimaste meno conosciute erano ricchissime, e lo si vede bene leggendo l’«archeologia» del Lazio in Virgilio o in Plinio il Vecchio (3.68-70). I punti sono esaminati nel libro in sequenza molto chiara: dal mito di Enea alle questioni di topografia, dai complicati sviluppi della leggenda locale, tra Lavino, Alba e Roma, alle storie della fondazione. La leggenda è messa a frutto anche per comprendere i segni presenti nella Roma storica: il tracciato del pomerio, certi riti e segni rimasti significativi per secoli (ben lo sapeva Claudio – più volte nominato –, imperatore dotto ed etruscologo).

L’indagine di De Sanctis è ben leggibile, e ricca di aggiornati approfondimenti, utili al lettore curioso. Nell’incrocio delle differenti prospettive di lettura, prevale l’analisi storica: e poiché nel tempo le domande e le risposte sono molto cambiate, adeguato spazio è dato anche alla storia degli studi, così importante per una questione così controversa.

Un percorso paragonabile, ma impostato entro il genere biografico, è proposto da Mario Lentano in Romolo La leggenda del fondatore (Carocci editore, pp. 168, € 14,00). La figura centrale è certo ben «presente nell’immaginario», ma non è agevole ricondurla dalla leggenda a una prospettiva di storia. Parlare di Romolo significa abbordare il mito di un eroe fondatore, «al quale ha posto mano e cielo e terra», che richiede quindi strumenti della storia religiosa e dell’antropologia. Il nucleo del racconto è breve (e molto l’ha già scritto Plutarco, tra gli altri), sicché è quasi inevitabile aprire a qualche concessione immaginativa: si evoca lo scenario di quel 21 di aprile, in cui Roma fu fondata, si narrano vari episodi mitici, ma evitando marcatori di distanza (quindi con i verbi al presente), inducendo nel lettore una sorta «effetto di verità». Pur nel «piacere del racconto», risalta l’impegno decisivo a interpretare: nel libro la leggenda è presa sul serio. Che è altra cosa dal credervi o dal cercare di sceverare il vero dal falso per via di dimostrazione.

La saga di Romolo è segnata anche da tratti oscuri, spesso incompresi da epoche successive, che cercarono di normalizzarli o razionalizzarli. Non c’è spazio qui per le «posizioni iperscettiche», sì invece per analisi di etimologie e di riti, che si mantennero fino a età storica (i Lupercalia, per esempio). E poi riflessioni sulle caratteristiche «culturali» della leggenda eroica (come lo stupro divino, l’esposizione del fanciullo, e altri) e, ancora, discussioni sui tratti caratteristici della leggenda, dal ruolo dell’astuzia alla funzione della gemellarità. E il fratricidio, certo: che è nella saga il punto finale della differenziazione tra Romolo e Remo. Quell’atto di sangue, che divenne a Roma «una sorta di mito di fondazione delle guerre civili», viene interpretato piuttosto a partire dalla trasgressione di Remo: è quello, e non l’omicidio, il vero nefas. Di fatto, la leggenda di Romolo è lo sfondo sul quale restrospettivamente si proiettarono le origini di strutture sociali, cultuali e istituzionali della Roma storica e i loro principi regolatori: perciò egli è «davvero il primo romano».

Il tema della fondazione di Roma è oggi in prevalenza considerato appannaggio dell’archeologia, grazie a nomi autorevoli (Andrea Carandini), a oggetti e scavi sempre mediaticamente efficaci. Ha contribuito persino il cinema, che tra musiche suggestive ha potuto far suonare pure il «protolatino» parlato dal «primo re». Nel confronto con prodotti siffatti, è arduo il destino dei libri che cercano un proprio spazio: tra i modi più in voga, la valorizzazione di una certa idea di Roma. Per esempio, a partire dal cosiddetto «asilo», che la tradizione dice creato da Romolo per accogliere e dare protezione a «stranieri». Lentano vi riconosce la «strutturale apertura all’integrazione dello straniero» propria del mondo romano; De Sanctis osservò che già l’innesto della leggenda troiana su quella locale dei gemelli avviava la costruzione di un’identità mescidata, remotissima dalle purezze autoctone esibite da certa cultura greca. A valorizzare in questa direzione la Roma antichissima, secondo una prospettiva presente, secoli dopo, anche nel mondo multietnico dell’impero, spinge senz’altro un’urgenza contemporanea. Ci si propone, anche, di contrastare la precedente immagine, nazionalista e littoria, di una romanità imperialista e razzista.

È bene ricordare che il favore verso il «meticciato» di Roma è acquisizione recente: nell’autorevolissima Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis (1906), alla leggenda locale dell’asilo era attribuito «il carattere di una maligna invenzione dei latini», che faceva dei romani semplici «discendenti di banditi latini e di Sabine rapite», giacché l’asilo «non è esistito altro che nella leggenda» (e Romolo non è che «un etnico formato sul nome di Roma», utile a designare «il cittadino mitico»). Lo storicismo aveva certezze oggi impensabili. Il cui tramonto ha lasciato ai moderni un bisogno di leggenda, compensativo di un mondo sempre più grigio.