Kento è un rapper militante di Reggio Calabria, vincitore del premio “Cultura Contro le Mafie” di quest’anno. Il suo nuovo album, “Radici”, realizzato insieme a una superband creata per l’occasione – The Voodoo Brothers – ha riscosso ampi consensi. Kento fa inoltre parte dei Kalafro, il cui album “Resistenza Sonora” è stato definito “il primo disco prodotto dalla mafia”, perché finanziato con proventi di beni confiscati ai boss. Da qualche settimana è rientrato dalla Palestina, dove ha partecipato a un progetto di collaborazione con la scena hip hop del luogo. Ce lo racconta in queste pagine.

Inizio 2014: quando mi hanno chiesto di partecipare ad Hip Hop Smash the Wall, la situazione in Palestina era la più calma da molto tempo a questa parte. Le autorità delle due parti dialogavano, si piantavano alberi d’ulivo e, almeno tra di noi artisti, nessuno sembrava presagire l’inferno che sarebbe scoppiato a Gaza. Conoscevo già qualcosa di hip hop palestinese, senza esserne un esperto. Ho condiviso più volte il palco con Shadia Mansour, so che una bella canzone dei DAM si chiama “Gareeb fi bladi”, che in italiano sarebbe “Straniero nella mia nazione”, e mi fa pensare a una traccia dei Sangue Misto che è una delle mie preferite di sempre. Si tratta di una scena più giovane di quella italiana, ma culturalmente molto evoluta: oltre ovviamente all’arabo, usano anche l’inglese e perfino l’ebraico nei testi. Dal punto di vista tecnico, sono molto amati gli incastri veloci e mozzafiato in stile Busta Rhymes e Tech N9ne; per quanto riguarda i testi, ci sono ottimi contenuti politici e sociali che ricordano quelli dei nostri Assalti Frontali, ma anche profondi riferimenti lirici che richiamano la poesia e letteratura mediorientale. Il progetto sembrava, in un primo momento, poco più di uno scambio culturale: un gruppo di hip hopper italiani che vola in Cisgiordania per collaborare con degli omologhi locali. Un disco rap, una murata di graffiti, una coreografia di break dance, il tutto concluso da un’esibizione dal vivo, e accompagnato dalle riprese di un documentario, mentre la coordinatrice del progetto – Eleonora Pochi – ci rassicurava ulteriormente raccontando la lunga esperienza di Assopace Palestina sul territorio. Accettai subito con entusiasmo. Ma, come sanno tutti, le circostanze sono cambiate radicalmente in poche settimane, e ci siamo trovati a volare sull’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv quando le macerie della Striscia erano, metaforicamente, ancora fumanti. Per la Palestina si parte prima di partire, quando si imparano a memoria le procedure di sicurezza necessarie ad evitare ogni tipo di problemi all’arrivo in Israele ed ai checkpoint. E Tel Aviv dall’alto sembra Miami, ma quando tocchi terra la sensazione di “normalità occidentale” viene subito spezzata dalle guardie con i giubbotti antiproiettile e i fucili d’assalto, che sembrano spuntare ad ogni angolo. Nel momento in cui incontriamo la metà palestinese del gruppo di lavoro, i nostri 3 breaker – o b-boy, come si dovrebbe dire più correttamente – sono i primi a rompere il ghiaccio. Giulia “Chimp”, l’unica b-girl del gruppo, ha vissuto da queste parti e conosce la lingua e la cultura (e infatti sarà lei a seguire la realizzazione del documentario, a cura di Barbuka Production), mentre Edoardo “Xedo” si mette subito in discussione entrando per primo a ballare nel cerchio. Ma il più incredibile è Francesco, detto Telemare: dopo mezz’ora è già l’idolo dei ragazzini del campo profughi di Nablus e, alla fine del viaggio, si lancerà in un discorso di commiato nell’arabo pieno di strafalcioni e parolacce che gli hanno insegnato le piccole pesti. Per quanto riguarda i graffiti (anche qui c’è un termine più corretto: writing), Paolo “Gojo” aveva preparato una enorme busta piena di tappi per gli spray: servono a regolare dimensione ed intensità del getto di colore, e sono indispensabili per ottenere i migliori risultati. Alla fine, si è fatto convincere dalla prudenza e li ha lasciati a Roma: il carico di tappi sarebbe stato troppo difficile da giustificare all’arrivo senza svelare il fine artistico/politico del nostro viaggio. Ma la mancanza di strumenti non è sempre negativa: i ragazzi qui di solito non hanno accesso ai tappi speciali, e quindi è anche più bello condividere e sperimentare con le tecniche che usano abitualmente. Noi rapper, come da stereotipo, siamo quelli inizialmente più chiusi, ci dobbiamo studiare. Io sarei il militante del gruppo, ma c’è anche Coez che, con il suo stile melodico, riempie i palazzetti e colleziona milioni di views. Lucci, pur facendo parte della stessa crew di Coez, ha un approccio decisamente più hardcore: basti pensare che il suo ultimo disco si intitola “Brutto e Stonato”. Prisma è forse il più riflessivo a livello caratteriale, ed uno di quelli che credono davvero nei valori dell’hip hop sotterraneo. La sua crew si chiama Romanderground: non saprei davvero trovare un nome più azzeccato. La magia non si materializza fino al momento in cui entriamo nello studio di registrazione, che si trova in una terra di nessuno al di fuori della giurisdizione della municipalità di Ramallah, sulla strada verso il famigerato checkpoint di Kalandia. L’attimo in cui varchiamo quella soglia è, probabilmente, quello in cui realizziamo che stiamo per vivere un’esperienza unica, e tutte le motivazioni che ci hanno portato in quest’angolo di mondo riemergono potenti. Ci mettiamo a scrivere e registrare come se lo facessimo insieme da una vita, e con lo stesso entusiasmo con cui mettevamo la penna sul foglio da ragazzini. Il nostro cameraman Tom mi ha fatto vedere alcune riprese girate lì in studio, e l’atmosfera è pazzesca: nube di fumo impenetrabile, mille lattine vuote di energy drink (che qui tutti tracannano come acqua) e, in ogni angolo disponibile, un rapper italiano o palestinese che scrive o ripassa un testo, muovendo ognuno la testa al suo ritmo. Per un estraneo deve sembrare un manicomio o la riunione di una setta, e infatti chi passa a trovarci rimane in piedi immobile, in religioso silenzio. Chimp mi spiega che questo studio ha un’importanza fondamentale nella storia dell’hip hop palestinese: fino a pochi anni fa le registrazioni professionali erano possibili tecnicamente soltanto all’interno del territorio di Israele, con enormi difficoltà economiche e logistiche per gli mc del luogo. Il ragazzo che lo gestisce, Khaled, è un gran cantante, ma inspiegabilmente timido quando si tratta di far sentire le sue melodie. Riuscirò ad ascoltarne solo una dal vivo, e nessuna incisione. Al banco mix, però, è un carro armato: registra, mette in sequenza, riascolta senza sosta. Arriva la sera ed è stravolto, ma il lavoro fatto è ottimo. Strofa dopo strofa, l’album prende forma in pochi giorni. Sono io a rompere il ghiaccio con una canzone dedicata alla denuncia dell’occupazione e delle responsabilità italiane: non tutti sanno che il nostro Paese è il primo fornitore UE di armi e tecnologie belliche ad Israele, con un giro d’affari che arriva quasi a pareggiare quello di Germania, Francia e Regno Unito messi insieme. Ma il disco sarà ben più di questo: abbiamo deciso di non focalizzarci soltanto sull’aspetto sociale, e quindi c’è ampio spazio per pezzi più riflessivi, per parlare di sentimenti e per sfoggiare un po’ di tecnica, ognuno nella sua lingua madre. “Abbattere il muro” significa innanzitutto abbattere la barriera dei pregiudizi, un’altra delle battaglie che gli hip hopper di queste parti hanno dovuto combattere sulla loro pelle. Il rap non è ben visto dai conservatori, che lo considerano un medium di importazione statunitense e quindi, automaticamente, di contenuto imperialista. Nel 2007, un concerto a Gaza è stato bruscamente interrotto da un gruppo integralista, che ha picchiato i 4 rapper sul palco e addirittura ne ha rapito uno per alcune ore, minacciandolo con le armi di conseguenze pesanti se non avesse smesso di suonare “musica corrotta”. Per quanto mi riguarda, una delle scene – mio malgrado – indimenticabili è la manifestazione di un gruppo molto nutrito di miliziani, armati ed incappucciati, proprio sotto le finestre dello studio di registrazione. Il raid dura più di mezz’ora, con i Kalashnikov che fanno fuoco in aria e i bambini che corrono in mezzo ai colpi per raccogliere i bossoli. La polizia non arriva e non arriverà: capiamo finalmente il senso di quando ci era stato detto che lo studio si trova nella “terra di nessuno”. Quando giunge il momento del live finale, entriamo nel capiente e bellissimo auditorium – il Cultural Palace di Al-Masyoun – facendo finta di non essere assolutamente emozionati. Italiani e palestinesi si mescolano sull’enorme palco ma anche tra il pubblico: i nostri cooperanti e volontari in Cisgiordania hanno fatto girare la voce, e sono venuti a sentirci da Gerusalemme, Nablus, Hebron. I breaker di Gaza, invece, non hanno potuto lasciare la Striscia, ma in qualche modo sono con noi: a metà dello spettacolo si abbassa uno schermo su cui è proiettata la loro immagine, e cominciano a ballare virtualmente con i presenti. La coreografia è lunga e perfetta, passando senza stacchi dalla musica tradizionale al breakbeat più spinto. Impressionante pensare come sia stata messa in piedi in pochi giorni, e con ragazzi che in alcuni casi non hanno più di 15 anni. Lo show finisce, ma nessuno ha voglia di scendere dal palco. Il mio portatile è già attaccato all’impianto, il problema è che ho solo la playlist della musica che ho passato al matrimonio di Michele e Serena, qualche settimana prima. Trovo i Run DMC, Lauryn Hill, e poi anche i miei Kalafro ed i Sud Sound System. Metto play, alzo gli occhi dallo schermo, ecco un nuovo momento di magia: molti degli spettatori sono saliti sul palco a formare un grandissimo cerchio per i b-boys. Battono le mani a tempo, acclamano le powermove più spettacolari. La parete tra artisti e pubblico è crollata spontaneamente, siamo una cosa sola. Mi accorgo che ho ancora le dita sporche di colore: avevamo passato la giornata al muro dei graffiti, mentre la gente del posto ci offriva frutta e limonata e tutti i bambini volevano farsi le foto con le bombolette in mano e la posa da pittore. Hamza e gli altri palestinesi hanno scritto Wattany, “terra madre”, riempiendo le lettere nere con i simboli della loro tradizione. Ci propongono di fare la stessa scritta in italiano, e tra di noi nasce una discussione. La traduzione letterale sarebbe troppo lunga, scrivere “terra” troppo generico, “patria” assolutamente improponibile. Alla fine decidiamo per un enorme “CASA”, che Gojo ricama con i simboli delle nostre lotte, della difesa del territorio, dei centri sociali occupati. Non mancano la falce e il martello. Lucci e Coez hanno una esperienza come writer paragonabile a quella al microfono, e i loro nomi prendono forma sul cemento con uno stile che si merita l’ammirazione dei locali. Quando è ora di partire, e prendiamo l’autobus che ci riporterà oltre il checkpoint, la sensazione è che qualcosa stia iniziando, non finendo. Appena atterrati a Fiumicino ha luogo la prima riunione operativa della seconda fase del progetto. Eleonora ha già tracciato la road map dei mesi a venire: a dicembre 2014 uscita del disco (che ovviamente si intitolerà “Hip Hop Smash The Wall” e verrà messo in vendita al prezzo politico di 5€ per l’autofinanziamento dei prossimi step), aprile 2015 per il documentario, autunno dell’anno prossimo per la chiusura del cerchio con le esibizioni in Italia degli artisti palestinesi. Abbiamo pensato di coinvolgere tutte le persone che ci hanno manifestato il loro sostegno, e i modi di contribuire sono molti: potete organizzare un evento a sostegno del progetto nella vostra città, o organizzare banchetti di raccolta fondi, potete infine aiutarci ad organizzare il campus in Italia per gli artisti palestinesi, tenendo presente che siamo già in cerca di sponsor e convenzioni di vario tipo. Per ogni informazione sul progetto, scrivete a spreadhiphop@libero.it, vi risponderà la coordinatrice. Se invece volete entrare in contatto con me, l’indirizzo è info@musicarivoluzione.com. È già attivo il crowdfunding su retedeldono.it, basta entrare sul sito e cercare Assopace Palestina o Hip Hop Smash The Wall. È possibile partecipare anche mettendo il banner della raccolta fondi su portali, blog e siti, si può scaricare il codice direttamente dalla pagina del crowdfunding cliccando su “widget”. Per approfondire ulteriormente, vi invito a visitare il sito assopacepalestina.org e a tenere d’occhio Facebook, dove stiamo costruendo una pagina in lingua italiana, inglese ed araba, che permetta a tutti il confronto e lo scambio quotidiano di idee e spunti, perché il supporto culturale al movimento hip hop palestinese non si fermi soltanto ai momenti più grandi e importanti. Ad esempio, la prima “piccola” iniziativa sarà la spedizione di abbigliamento e scarpe per i giovani b-boy dei campi profughi, anche questa prevista entro il 2014, giusto il tempo di definire tempi, modi e luoghi di raccolta. Appena rientrato in Italia mi è arrivata la prima importante adesione: si tratta del Rugby Team No Tav che si sta mobilitando per organizzare un torneo di solidarietà attiva al progetto. Tutte le squadre che si riconoscono nel movimento hanno già dato la loro disponibilità, ora bisognerà trovare soltanto un buco nel calendario dei campionati in modo da permetterne lo svolgimento, con tutta probabilità a Roma. E chissà, magari l’anno prossimo saranno anche loro a volare a Ramallah per la prima edizione di Rugby Smash The Wall. Come accennavo, non è ancora tempo di tracciare dei bilanci, se non dal punto di vista della mia crescita personale. L’esperienza è in corso, aperta a chiunque vorrà partecipare ed il mio pronostico positivo sull’esito della stessa è legato in primo luogo alla buona volontà dimostrata dai partecipanti. Dal punto di vista logistico abbiamo incontrato vari intoppi, superati grazie appunto alla volontà di tutto il gruppo di lavoro. Problemi sono diventati opportunità. Si riscoprono vecchi modi di darsi appuntamento senza aver bisogno dei cellulari ed emerge una nuova elasticità mentale. Si condivide il cibo, gli spazi e il sonno… almeno quelle poche ore in cui i ragazzi più giovani smettono di fare casino. La municipalità di Ramallah ha dato un contributo importante, ed il suo uomo sul campo, Asad, ci ha spiegato in maniera molto efficace la situazione politica attuale nei Territori, comprese le fortissime divergenze con Hamas. Nessuno è così ingenuo da pensare che l’hip hop da solo basterà ad abbattere il Muro della Vergogna né l’occupazione e gli insediamenti illegali ed odiosi. Ma, almeno a queste latitudini, si tratta di un movimento rivoluzionario e progressista, composto da giovani coraggiosi e molto intelligenti. Ragioni più che sufficienti per supportarne l’arte e la lotta. Sono di Reggio Calabria, e da sempre mi sento un “mediterraneo” più che un europeo. La geografia dice che Ramallah è più vicina di Londra alla mia città. Ma la vicinanza culturale è più importante e preziosa, ed averla scoperta è stato il migliore regalo che questa esperienza mi abbia regalato. Avrò presto un nuovo capitolo da raccontarvi. “Più forte di una bomba, più a fondo di una tomba/la musica sostiene questa terra e la circonda”.