Finisce a Verona questo Giro d’Italia edizione 102, coi corridori che spariscono in vista del traguardo risucchiati nel catino dell’Arena. Qui si era già conclusa la corsa, più crudelmente, nell’84, quando Moser si era mangiato nell’ultima cronometro Fignon. Su questo stesso circuito si sono corsi due mondiali, con un unico vincitore, Oscarito Freire, che vinceva poco e bene, e sorrideva.

In questa domenica di giugno ci si giocano le posizioni di rincalzo alle spalle di Carapaz, primo ecuadoriano a trionfare in un Giro, e in una corsa grande in generale. Secondo si conferma Nibali, per il terzo la spunta Roglic su Landa. Sul podio pure Ackermann (classifica a punti), Ciccone (GPM) e Lopez (miglior giovane). La tappa se la porta via l’americano Haga, una vittoria che è una resurrezione.

A bocce ferme si riflette sempre su quello che sarebbe potuto essere. I rimpianti maggiori dei battuti dovrebbero essere appuntati sul percorso. Se c’è un senso nel limitare il Giro al centro-nord è quello di poter dare più spazio alle grandi montagne. Ma in fin dei conti tappe davvero dure ce n’erano tre o quattro. E comunque ci vuole fantasia, attraversando l’Appennino a zigo zago, a non trovare il momento per collocare un paio di trappole già nella prima settimana.

Se Nibali e Roglic hanno fatto corsa l’uno sull’altro in quello che poi si è rivelato un suicidio tattico, è pure vero che ad aver avuto le gambe niente avrebbe impedito all’uno di rincorrere Carapaz nelle giornate in cui ha fatto la differenza, non foss’altro che per tirare il collo all’altro. Non l’hanno fatto, e la strada ha decretato il più forte.

Gente per la strada, un’infinità. Non sempre la quantità è stata qualità, il capitombolo di Lopez con annessa scazzottata un episodio inquietante di mancanza di cultura del ciclismo da parte degli spettatori. Per fortuna ci hanno risparmiato i fumogeni che avevano appestato il gruppo alla Sanremo. Mentre si chiude la baracca, in questo sport che è immortale perché non segue la linea retta del tempo, ma si avvolge sempre su se stesso, si ripensa a tutti quelli che ci hanno accompagnato per la strada, e che ritorneranno sempre.

Fiorenzo Magni e Lanciotto Ballerini; Pezzi e Martini; l’Airone ed il Pirata; Brera e Zavoli, che hanno inventato quasi tutto. E poi Nibali nostro. Realismo vorrebbe che questo Giro ne rappresentasse il testamento di coraggio, ma è corridore antico e non ci rassegniamo a salutarlo. Finché c’è lui in corsa, è lui il ciclismo. E soprattutto Carapaz, piovuto sul Giro da un angolo di cielo sulle Ande, che oggi si gode la Rosa sorridente.