“Rumori nell’isola” di Ventotene è una rassegna dai molti baricentri. Lo ha confermato anche il palinsesto della sua XV edizione che ha celebrato tre giorni di concerti nella bella Piazza della chiesa, una splendida bomboniera che domina il porticciolo di quest’isola dalla storia nobile e dal profilo arcigno, isola amatissima dai suoi residenti e anche da un vasto popolo di visitatori che la frequentano con il rispetto che si deve ad un gioiello del nostro mare. Le isole, pur nella loro essenza di “bastioni della solitudine”, sono sempre posti aperti al nuovo: un nuovo vento, un nuovo attracco, una nuova marea, una nuova migrazione, un nuovo “rumore”.

E in questo senso la pluralità dei temi e degli stili evocati nelle passate edizioni di “Rumori nell’isola” non ha mai tolto identità alla rassegna e dunque anche quest’anno il baricentro “plurale”, più che un’eccezione sembrava una regola. A scorrere il programma di questa tre giorni musicale molto compatta si finiva per condividere questa “apertura” e per attraversare questa curiosità…C’era il Sudamerica, c’erano suggestioni jazz, c’erano Napoli e le mille derive del bacino musicale partenopeo, c’era il patrimonio delle moresche e villanelle pubblicate nel cinquecento dal fiammingo Orlando di Lasso, c’erano i riferimenti ai sincretismi musicali del Mediterraneo e c’erano perfino le memorie e i ricordi di due luoghi d’esilio: la stessa Ventotene e la vicina isola di Santo Stefano, da sempre collegate da vicende storiche che hanno caratterizzato la storia italiana.

Proprio questi ricordi, queste storie, hanno aperto il festival, con alcune letture di memorie e testimonianze, tra le tante pervenute a noi dalla fine del ‘700, a firma dei detenuti politici che vi hanno soggiornato. Storie che aprivano uno squarcio sul passato, storie che sono rimbalzate anche sul “mood” del concerto inaugurale…”Raccontare storie è una forma sublime di condivisione, un artificio che ci permette di spaventare il buio”: sono parole di Gabriele Mirabassi, clarinettista giramondo che ha scoperto relativamente di recente la propria vena di “storyteller”…”prima di cominciare a frequentare il Brasile stavo sempre zitto, ora anche quando sono sul palco, non riescono a farmi smettere di parlare”.

In effetti l’orizzonte ispirativo e produttivo di questo fenomenale strumentista umbro segue i rivoli di un approfondimento maniacale ed entusiasta delle musiche di matrice “latina” e il continente sudamericano è diventato da tempo sua patria elettiva, meta delle sue frequenti trasferte concertistiche e fucina di decine di collaborazioni (da Guinga ad André Mehmari, da Monica Salmaso a Sergio Assad..). È un profilo ribadito anche sul palco della Piazza della chiesa di Ventotene dove Mirabassi ha portato il suo “Um Brasil diferente”, lo spettacolo che condivide con il chitarrista Roberto Taufic (nato in Honduras da genitori di origini arabe, ma cresciuto in Brasile e oramai naturalizzato italiano). Il duo ha inaugurato un entusiasmante excursus che comprendeva brani originali, classici di Chico Buarque (“Quem te vu Quem te ve”, “Teresinha”) e Guinga (Noturna”), boleri cubani…un itinerario che faceva leva su un’empatia strumentale che i due giocano da sempre non solo sul fraseggio, ma anche sulle dinamiche, non solo sulla verve improvvisativa, ma anche su quella timbrica.

In questo gioco il clarinetto di Mirabassi tagliava i brani come una lama, grazie a un fraseggio esuberante e alla profonda conoscenza del materiale. Alla fine della serata, per condire ulteriormente una salsa molto speziata, si é unita al duo anche la voce di Maria Pia de Vito, chiamata a “tingere” con le sue traduzioni in napoletano alcune magnifiche canzoni brasiliane composte da maestri come i succitati Buarque e Guinga, che peraltro hanno dato la loro “approvazione” in passato a questa rilettura accorata del testo originale in portoghese. L’apparizione della cantante campana era una specie di trailer di quello che sarebbe successo il giorno seguente, una specie di giornata campale per le sue corde vocali. La “tenzone” si è aperta in un luogo particolare, fortemente legato alla storia dell’Isola.

Una suggestione magnifica quella di ascoltare le voci di Maria Pia de Vito e dell’ensemble Burnogualà (un Ensemble fondato nel 2012 in seno alle classi jazz del Conservatorio di Santa Cecilia e al Saint Luis Music College) all’interno dell’antico Murenario, proprio sotto il faro di Ventotene. Voci che rimbombavano in acqua, con le coriste e i coristi immersi fino ai fianchi e la De Vito completamente immersa a dirigere. Un effetto straniante e seducente acuito dall’effetto dell’acqua di questa piscina dismessa, percossa come se fosse la pelle di un tamburo e acuito anche dal repertorio scelto per questa performance. Si trattava infatti di due magnifici esempi dell’arte compositiva del fiammingo Orlando di Lasso – “Lucia, cielu” e “Allallà pia calia” – tratte dal repertorio delle canzoni moresche. Un approccio sorprendente che la sera avrebbe trovato modo di essere allargato sia dal punto di vista del repertorio che dell’organico.

Non è peraltro la prima volta che Maria Pia de Vito decide di rivisitare il repertorio di un grande compositore classico, per “elaborarne senza stravolgerlo” il verbo compositivo. Qualche anno fa era toccato a Giovanni Battista Pergolesi su commissione del Festival Pergolesi Spontini di Jesi. Un’operazione che vide al fianco della cantante anche Anja Lechner, Michele Rabbia e François Couturier e che fruttò decine di concerti in tutta Europa e un bell’album inciso per la Ecm di Manfred Eicher titolato appunto “Il Pergolese”. Stavolta dicevamo, toccherà a Orlando di Lasso e al suo mirabile “Libro de Villanelle, moresche et altre canzoni” confluire in un album che ha già un titolo, “Moresche ed altre invenzioni”, e di cui si è avuta una credibile anticipazione sul palco di Piazza della chiesa. Organico allargato rispetto all’esibizione nell’acqua del Murenario (alle voci si erano infatti aggiunti Rita Marcotulli e Lorenzo Apicella al pianoforte e Dario Piccioni al contrabbasso) e repertorio fortemente impregnato da quella specie di eresia sonora e linguistica che furono gli intrattenimenti vocali a 3-4-5-6-8 voci del maestro fiammingo. Parodie giocose e pungenti, ma anche intrise di un lirismo allibente, i cui protagonisti erano schiavi e liberti africani ritratti in serenate, corteggiamenti, bisticci, cantati in uno “slang” che mescolava sapientemente frammenti di dialetto napoletano e – come ha rivelato un recente studio dell’Università di Lecce – in una lingua di radice nilo-sahariana parlata nell’area nord-est della Nigeria, il kanuri.

A questo materiale, già di per sé fascinoso, la De Vito e i suoi aggiungevano anche escursioni improvvisate e altro materiale affine (la villanella “Vecchie Letrose” del compositore Franco-fiammingo Adrian Willaert e un madrigale di Ernst Rejseger cui la De Vito ha adattato un testo dello scrittore Gabriele Frasca) producendo anche nella serata di Ventotene l’affresco compiuto di un progetto che promette esiti discografici davvero virtuosi. Il tempo di far riposare le emozioni rinascimentali di questa seconda serata e ci si è di nuovo spostati, trovando altri “rumori nell’isola”. Il concerto finale prevedeva infatti l’esibizione de I Tamburi del Vesuvio di Nando Citarella ed era stato fissato nella piazza del Municipio. Focus privilegiato di questo progetto del maestro di Nocera Inferiore è da sempre il grande bacino delle tradizioni popolari del centro sud, in particolare di quelle collegate ai rituali religiosi e alle mille forme di spiritualità che intrecciano il mar mediterraneo con le sponde del Nordafrica e coi Balcani. Tamorre, zampogne, organetti (quello di Alessandro D’Alessandro), le percussioni di Valerio Perla e la voce di Gabriella Aiello. Un bailamme di suoni, pilotato dalla voce di Citarella. Un set piuttosto festoso che negli spasmi del finale ha voluto concedersi un momento di riflessione per ricordare la strage di Marcinelle di cui ricorre l’anniversario proprio in questi giorni. Il refrain dolente di “Amara terra mia” con i suoi “cieli infiniti e volti come pietra” ha ricordato agli astanti di un’isola abituata alle partenze e ai ritorni “coatti” che le rotte dell’immigrazione cambiano meta ciclicamente e che nessun popolo può dirsi al sicuro o sentirsi definitivamente al riparo.