«L’esercito americano resterà qui in Lituania, Estonia, Lettonia e Polonia il tempo necessario per appoggiare i nostri alleati e scoraggiare l’aggressione della Russia. Come minimo per tutto il 2015», ha dichiarato ieri il Comandante delle forze di terra Usa in Europa Frederick Ben Hodges. Parole senza equivoci. Un po’ meno, ma altrettanto indubbie, quelle del presidente ucraino Pëtr Poroshenko che, durante l’incontro a Kiev con la Presidente lituana Dalia Grybauskaite, ha detto «Abbiamo messo a punto i criteri con cui potremo soddisfare i requisiti richiesti dalla Nato. Solo dopo, il popolo ucraino deciderà con un referendum se aderire o meno». Se si è dovuto attendere l’arrivo a Kiev, con la scusa dell’anniversario di Majdan, del vice Presidente Usa Joe Biden, perché i 5 partiti di destra entrati alla Rada con le elezioni del 26 ottobre riescano a firmare (forse dopodomani) l’accordo per la coalizione di governo, su un punto l’intesa è stata rapida: la coalizione intende abolire lo status di paese fuori dai blocchi, per riprendere il percorso di adesione alla Nato. Adesione alla Nato e ingresso nella Ue, dunque, gli obiettivi dei golpisti usciti da Euromajdan.

Nello scorso fine settimana in Ucraina si è celebrata la Giornata della dignità e della libertà: uno slogan europeista per santificare l’inizio di Euromajdan. Il 21 novembre 2013, una settimana prima della firma dell’accordo di associazione tra Ucraina e Ue, l’ex presidente Viktor Janukovic annunciò la sospensione della firma. Tra i motivi della decisione: da un lato, il disinteresse della Ue stessa, dimostrato dall’irrisorio aiuto finanziario che Bruxelles avrebbe offerto, in cambio, all’Ucraina; dall’altro, la necessità di uno studio più dettagliato sulle misure da adottare e sugli scambi commerciali con i paesi della CSI. I Manifestanti si radunarono nella piazza centrale di Kiev per protestare contro la decisione. Già a fine novembre le manifestazioni «europeiste» si trasformavano in incursioni nazionaliste e neonaziste; a febbraio 2014 c’erano già 100 vittime: i «cento celesti».

Il 22 febbraio la Rada suprema, ormai controllata dai nazionalisti, aboliva la legge che riconosceva il russo quale lingua regionale, vietava i canali tv russi e stilava una lista di artisti (come avviene ora nei paesi baltici) cui era negato l’ingresso in Ucraina. Nel sudest del paese, in cui è predominante la popolazione di lingua russa, iniziavano le proteste; il 7 aprile Kiev dava inizio alle operazioni «anti-terrorismo» e, una settimana dopo, alle operazioni militari, cui prendevano parte attiva i cosiddetti battaglioni di volontari, nazionalisti e neonazisti. Il resto, purtroppo fino a oggi, è storia nota. E dopo le elezioni del 26 ottobre il potere ucraino si è spostato ancora più a destra, come dimostra il corso delle operazioni nel Donbass; l’accordo con la Lituania per la collaborazione nel settore degli armamenti e il via libera Usa alle forniture militari servono allo scopo. Ma cosa attende l’Ucraina nei prossimi mesi o settimane?

Oltre ai 4.317 morti e 9.921 feriti (rapporto Onu del 18 novembre), gli eventi di quest’anno trascorso da Majdan hanno dato all’Ucraina un’inflazione al 19,8%, un debito pubblico – aumentato del 74,3% – che ha raggiunto i 63,29 miliardi di dollari. Il volume della produzione si è ridotto del 18,6% e quello del commercio al dettaglio del 6,8%; la produzione di energia elettrica è diminuita del 10,7%, l’estrazione del petrolio del 5,3%; cresciute del 40-60% le tariffe sui servizi comunali. Svalutata quasi del 100% la moneta: da 8 a 15 grivne per un dollaro.

Per l’economista Sergei Bespalov, «agli Usa non interessano l’economia e il mercato ucraini, quantomeno in termini economici». Tanto l’ex Segretario di Stato Usa Henry Kissenger, che l’ex presidente ceco Vaclav Klaus rilevano come Maidan sia nata a Washington, per legare l’Ucraina alla sfera d’influenza occidentale e inserire un cuneo tra Russia e Ue. Il capo redattore del Kiev Telegraph Vladimir Skachko dice: «Nessuno accoglie l’Ucraina nella Ue; le viene solo promesso. Appendono la carota come esca davanti all’asino, e l’asino corre: può correre in circolo, in avanti, indietro, ma non otterrà mai la carota».

Proprio in questi giorni il premier ungherese Orbàn ricordava come l’adesione di Kiev costerebbe alla Ue 25 miliardi di dollari l’anno. E per l’ex consigliere presidenziale Rostislav Ishchenko: «La popolazione è pronta a esplodere alla prima scintilla. Ma non c’è una forza di opposizione (antinazista) in grado di mettersi a capo delle proteste. Quindi, la situazione si evolverà probabilmente verso un altro golpe, ancora più radicale», diretto in prima battuta contro Poroshenko, ma che potrebbe rivelarsi esiziale anche per Yatsenjuk, che già ora rischia di finire sotto inchiesta per la perdita delle strutture del complesso militare-industriale nel Donbass. «Kiev non è in grado di vincere la Novorossija» dice ancora Ishchenko; «le milizie avranno presto la meglio sui soldati ucraini; ma potranno velocemente occupare tutto il territorio dello Stato solo se verranno appoggiate da sollevazioni di massa nei centri regionali e nella capitale. Per ora si può però pensare a sollevazioni antifasciste solo in 4 o 5 centri (Kharkov, Odessa, Dnepropetrovsk, Zaporozhe)». Ma non è escluso un ulteriore scenario, cioè che «dopo un nuovo golpe a Kiev, la Galizia (regioni di Lvov, Ivano-Frank, Ternopol) proceda alla separazione e alla costituzione di uno stato autonomo; e Lvov potrebbe avanzare pretese anche su Transcarpazia (Uzhgorod), Bucovina (Cernovtsi), Volinia (Lutsk, Rovno)». Scenario jugoslavo, insomma; si quando USA atque Nato utilitati est.