Due mostre al femminile alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia: un contrappunto pittorico-installativo che interfaccia le artiste Emma Hart (sesta vincitrice del Max Mara Art Prize for Women) e Luisa Rabbia.
Il premio vinto da Hart è organizzato e finanziato da Max Mara che marca la partnership tra la Collezione Maramotti e la Whitechapel Gallery di Londra. Assegnato biennalmente, a partire dal 2005,  sostiene artiste che vivono nel Regno Unito nella produzione di nuovi lavori realizzati in una residenza semestrale in Italia.

MA LA COLLEZIONE Maramotti, diretta da Marina Dacci, racchiude oltre centinaia di opere d’arte realizzate dal 1945 a oggi, di cui oltre duecento in esposizione permanente, che attraversano alcune delle tendenze artistiche italiane e internazionali della seconda metà del XX secolo.
Nel bellissimo stabilimento anni Cinquanta dove sorgeva la fabbrica di Max Mara è ora allocata la Collezione, voluta dal fondatore Achille Maramotti, riconvertita in spazio espositivo, che mantiene la sua struttura originaria e tutta la leggerezza e la luminosità dei volumi che la compongono.
Nelle sale scorrono opere di Anselmo, Vito Acconci, Bill Viola, Lucio Fontana, Pier Paolo Calzolari, Mark Dion, Jason Dodge, Alberto Burri, Rosemarie Trockel, Margherita Manzelli, Mario Schifano, Ontani, Kiki Smith, Piero Manzoni, David Salle, Jean-Michel Basquiat, Mario Merz, Betta Benassi, Ross Bleckner, Mark Manders e moltissimi altri. Lavori che sottolineano la predilezione per la pittura soprattutto e che mantengono l’autonomia di un gusto che non rincorre la moda del momento.

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LE DUE MOSTRE (aperte fino al 18 febbraio 2018) che si avvicendano nelle sale del pianterreno (e che appaiono intimamente legate, sia pur con notevoli differenze tematiche e formali) esibiscono la nuova produzione realizzata da Emma Hart e quella di Luisa Rabbia.
Emma Hart (Londra, 1974) presenta Mamma mia! una installazione dall’umore pop e che è frutto di una ricerca sui modelli visivi e sugli schemi del comportamento psicologico, analizzati attraverso le lezioni sostenute dall’artista, insieme alla figlia e al marito, sull’Approccio sistemico alla scuola di psicoterapia Mara Selvini Palazzoli di Milano, una metodologia costruttivista di terapia familiare che prevede rievocazioni fisiche e studio dei comportamenti reiterati.

L’INSTALLAZIONE organizzata nella penombra della vasta sala espositiva, consta di una serie di grandi teste di ceramica che dialogano tra loro entrando in rapporto con lo sguardo dello spettatore. Tale interrelazione è il nodo centrale del lavoro dell’artista inglese. Ogni scultura (sospesa al soffitto come fosse una grande lampada) prende la forma di una grossa brocca capovolta, in cui il becco rimanda al naso e l’apertura ad una bocca. Le sculture sono smaltate esternamente in bianco o nero e incorporano al loro interno pattern dai colori vibranti, disegnati e dipinti a mano dall’artista.

I DISEGNI VENGONO innestati da una indagine condotta sulla pratica della tradizione italiana della maiolica. Le opere, infatti, sono state prodotte dall’artista a Faenza (in collaborazione con gli artigiani della ceramica) durante il periodo di residenza che Hart ha vissuto in Italia, con puntate che l’hanno portata a Todi e Roma.
Love è il titolo invece della personale che Luisa Rabbia (Pinerolo, 1970) ha ideato per la mostra comprensiva di dieci lavori (dal 2009 al 2017) e che si snodano attraverso un corpus tematico unitario che include interventi su carta e che vanno dal disegno alla pittura fino a un intervento site-specific realizzato direttamente sulla parete dello spazio espositivo durante la sua residenza in Collezione.

NELLA SUA OPERA Rabbia riflette sulla relazione fra gli esseri umani e l’ambiente che li circonda. Nella evocazione del mondo organico fatto di membrane, cellule, filamenti e impronte digitali, l’artista sembra anche voler rimandare alla struttura compositiva del mondo reale. Tutti e due i mondi, organico e reale, si fondono in una intelaiatura segnica, costruita interamente sulla dominante del colore blu e che vuole alludere alla condizione esistenziale dell’essere umano, sempre più incerta e fluida.