La campagna di sostegno e sottoscrizione per il manifesto, (raccolti 900 euro) per la nostra indipendenza di fronte ai tagli alla legge sull’editoria – solo rimandati di un anno – arriva al confine estremo orientale, a Trieste: assemblea sul passato e sul più triste presente, e quindi ottima cena, tutto nell’ultima ma bellissima Casa del Popolo rimasta, quella sulla collina di San Giacomo. Alle pareti la mostra fotografica straordinaria realizzata da Gianluca Paciucci, presidente dell’Associazione Tina Modotti: immagini disperanti dell’altra affollatissima “via della speranza” insieme ai drammi del Mediterraneo: l’immigrazione via terra attraverso i Balcani.

Hanno un gran valore questi incontri, e va ben al di là dei “capitali” raccolti. Sono un pezzo di memoria che abbiamo spesso rimosso. E infatti ad ogni appuntamento vengono tutti, tanti che non abbiamo più avuto modo di incontrare – è arrivata perfino una lettera di adesione dall’Olanda. Perché la storia del Manifesto è stata importante, e per di più è possibile non declinarla solo al passato, perché – e non è poco – almeno il giornale, se non la militanza organizzata, c’è ancora. Ma tutt’ora c’è, vivo, il segno di quella cultura politica forte e nuova che ha caratterizzato il nostro comunismo.

Memoria, dicevo. Per me fu l’incontro con chi tutt’ora gestisce il circolo del Manifesto di Trieste, Marino Calcinari, lui in divisa militare perché sotto le armi, nella Caserma punitiva di Brescia: in libera uscita trovò la sede del Pdup di Contrada Marengo, e incominciò ad andare con i compagni su per le colline a fare la scuola quadri; e gli fu fatale, perché da allora è stato il nostro punto di riferimento nella sua città, Trieste. E poi io non posso non ricordare la più difficile campagna elettorale della mia vita, quando fui catapultata a candidarmi al Consiglio comunale di Trieste, città da cui viene un pezzo della mia famiglia ma che io conoscevo malissimo. Ma andò bene invece la avventurosa campagna elettorale abbinata, della Regione, dove, nonostante un difficile ma alla fine positivo contatto con gli operai dei cantieri di Monfalcone che ci aiutarono a raccogliere le tante firme necessarie, eleggemmo consigliere il compagno Barazzutti.

Trieste oggi è una città in mano alla destra, una brutta destra. E la sinistra è più che altrove frantumata. Quanto al Pd, in un posto dove il Pci aveva 7000 iscritti, ne ha 227 – mi dice il compagno Rossetti, allora segretario della federazione e oggi in quel partito. E però Trieste non è affatto una città morta. Perché dentro lo tsumani di una trasformazione che si annuncia di cui però ancora non si vedono bene le linee, con le nuove vie transcontinentali che si stanno aprendo e un porto dove si sentono già forti gli appetiti cinesi. Testimonianza della vivacità politica è l’Associazione Zeno, promossa da Riccardo Laterza, già coordinatore nazionale della Rete della Conoscenza (studenti medi e universitari), ora diventato urbanista, che si è proposta di intervenire con una iniziativa che celebra il 300mo anniversario della proclamazione di Trieste porto franco: un percorso di progettazione partecipata, quartiere per quartiere, con scenari immaginati, presentati in un affollato spettacolo all’Hangar Teatri. Trieste è città sempre culturalmente impegnata.

Mi piacerebbe immaginare, a conclusione di questa indispensabile campagna di sostegno a il manifesto, un grande appuntamento nazionale. Non un amarcord, per carità, ma una riflessione collettiva fra compagni che hanno avuto una storia e tutt’ora hanno una cultura largamente comune, su come utilizzare meglio, tutti assieme, questo piccolo ma non irrilevante patrimonio. Oggi, nel secondo decennio del terzo millennio. Per socializzarlo anche con i millennials, migliori di quanto non si creda (come dimostrano anche le sardine).