Vanessa Ambrosecchio insegna alle medie e solo per questo varrebbe la pena di leggerlo il suo romanzo scolastico, Tutto un rimbalzare di neuroni (Einaudi, pp. 136, euro 15), visto che, come già notava venti anni fa Sandro Onofri nel suo Registro di classe, agli insegnanti delle «medie» non li ascolta mai nessuno.
La scuola, infatti, è una strana cosa, presa come un monolite, da chi ne parla, raramente porta con sé un aggettivo (primaria o secondaria). Quando c’è, è cosa certa, non sarà mai secondaria di primo grado, cioè scuola media. Eppure da sempre, almeno dal 1963, chi ha a cuore il nesso scuola democrazia sa che molto si gioca in quei tre anni striminziti, che corrispondono all’età difficile dei ragazzi e delle ragazze, tre anni dove si semina il futuro, e dove si impara a guardare il passato prendendone le distanze, perché si cresce.

MA COSA SUCCEDE se l’ultimo anno è stravolto dall’arrivo di una pandemia? Cosa accade se il precario equilibrio raggiunto nei primi due anni all’improvviso si rompe, e se poi ci vuole un mese per ritrovarsi e ne mancano tre alla fine della scuola?
L’abbiamo visto da vicino, giorno dopo giorno, eppure serve ricordarlo, soprattutto se a raccontarcelo è un’insegnante che non si tira indietro mai, non ne fa una questione di principio quando parla di Dad ma di giga e dispositivi e interni di case che nessuno vorrebbe far vedere e anche per questo non obbliga i ragazzi della sua classe a tenere la telecamera accesa.
Ambrosecchio insegna a scuola da tanti anni, sempre a Palermo, non sappiamo se in scuole come quella che racconta nel libro, una scuola difficile. Sembra di sì per la cura che mette nello scegliere le parole che non suonano mai risentite, come accade troppo spesso a chi legge nei percorsi non conformi di tanti studenti uno sgarbo personale.

COME SCRIVEVA Daniel Pennac, gli studenti che vanno «male» entrano a scuola come cipolle, corpo in divenire, famiglia nello zaino, strati su strati da pelare. Ambrosecchio, lo sa e sa che fa «migliore figura» a fermarsi e ragionare sui «fallimenti» scolastici a partire da sé e per questo riesce a essere lucida anche quando iniziano a vaporizzarsi tutti, uno a uno, a non fare i compiti, a trovare scuse sempre diverse, sempre nuove. Anche quando non capisce bene come andare avanti perché «non si sa quanto durerà la pandemia» e quindi che senso ha «piantare una tenda, scavare, costruire».
Ci rimane male quando si rende conto che una ragazza, Giada, è diventata più «brava» a casa. «Tra le amorevoli cure della mamma, lontano dai versi beffardi dei compagni monelli, dal contrasto stridente coi compagni studiosi. Giada ha vinto dove non c’era nulla da combattere, insomma. È cresciuta, sì: in vitro. Se Giada ha vinto, ha perso la scuola come la intendiamo ancora: gruppo, conflitto, confronto, dinamica, relazione». Ma a volte è anche sopraffazione, violenza, ansia inutile; Ambrosecchio non lo dice perché il suo sguardo è concentrato sulla sua relazione con la classe e forse questo è l’unico elemento critico da sollevare. Come se mancasse il senso della collettività, e si continuasse a pensare che a salvarla, la scuola, saranno i docenti illuminati, come l’autrice di questo libro.

«INSEGNARE non è una scienza esatta – afferma – Stai un po’ come un apprendista chimico davanti ad alambicchi e liquidi colorati, a chiederti che accadrà se mescoli questo con quell’altro (…). Quel po’ che so è che è tutto un rimbalzare di neuroni nella stanza degli specchi, insegnare. Che come li guardi tu finiscono per guardarti, e fra loro, e se stessi». Che è tutto vero, ma non è un’intuizione, è così che funziona, lo raccontano le neuroscienze da decenni. Lo mette in pratica la didattica più illuminata da almeno cento anni. Insegnare forse è una scienza più esatta di quel che si vorrebbe far credere. C’è un modo di farlo bene e un modo di farlo male, proprio per quel «rimbalzare di neuroni».
Come scrive Chiara Valerio in Nessuna scuola mi consola (Einaudi, 2021), «credo che prima di essere assunti a scuola sarebbe necessario sostenere un colloquio motivazionale. Andrebbero esclusi per direttissima tutti coloro che utilizzano termini come Missione Prodigio Supplizio Amore Abnegazione. Andrebbero sponsorizzati tutti coloro che azzardano termini come Impegno Lavoro». Ecco, proprio così: impegno, lavoro. Che poi è quello che fa egregiamente l’insegnante raccontata da Ambrosecchio, si impegna, lavora e si vede e lo vedono i ragazzi.

ALLA FINE DELL’ANNO, quando gli esami si stanno avvicinando, legge in Dad Il più bello dei mari di Nazim Hikmet che è una di quelle poesie che fanno storcere il naso ai cinici ma che invece letta a 13 anni è bellissima e chiara perché, come diceva don Lorenzo Milani, la scuola porta dentro di sé il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. Proprio come gli adolescenti, che sono impastati di tempo. Ambrosecchio legge Hikmet e chiede: «Come lo vede il passato il poeta? Bello, risponde una ragazza, ma è più bello il futuro». Che detto nell’anno del Covid non è poco. Anzi è tantissimo